Castel Madama – L’esperienza delle carceri cubane di Emanuele Chicca

chicca“Doveva essere la mia prima vacanza all’estero e invece mi sono ritrovato nella cella di un carcere in Paese dittatoriale, senza sapere neppure il perché”, racconta a dieci giorni dalla sua liberazione Emanuele Chicca, 31 anni di Castel Madama, commerciante d’auto a Tivoli al “Centro Auto Chicca” di via Empolitana. Il suo, per mesi, è stato un caso diplomatico che ha segnato i rapporti tra Italia e Cuba.E doveva essere solo un’allegra vacanza a Cuba con due amici abruzzesi, ma il suo primo viaggio all’estero è diventato un incubo: Emanuele Chicca il 22 gennaio 2009 è stato arrestato e poi segregato in un cella del carcere “Ceramica Roja” di Camaguey.

Durante un tour nell’isola con una Peugeot presa a noleggio ad Oriente dell’isola caraibica, secondo l’accusa  Emanuele non si sarebbe fermato ad un posto di controllo. I suoi due amici dormivano mentre lui guidava, perciò non sono stati in grado di testimoniare. Al secondo posto di blocco Emanuele sarebbe stato quindi arrestato per “disobbedienza al codice della strada” e “attentato alla persona, ad un pubblico ufficiale”.Nessun tentativo dell’ex ambasciatore italiano Domenico Vecchioni che poteva applicare – ad esempio – la “Convenzione di Vienna” e di capire se poteva essere espulso, come spesso succede in questi casi. Poi la lunga attesa fino alla liberazione, avvenuta il 22 novembre scorso, grazie all’intervento del nuovo ambasciatore italiano Marco Baccin e all’interessamento del senatore Domenico Gramazio. «Se sono qui a Castel Madama e passerò le festività natalizie in famiglia, lo devo soprattutto all’aiuto e al sostegno di mio fratello Paolo. E’ venuto fino a Cuba e ci è rimasto per sei mesi, chiudendo la nostra attività di Tivoli, pensando solo a come liberarmi e riportarmi a casa», tiene a precisare Emanuele.    Chicca in quell’anno e dieci mesi di detenzione ha perso fino a 23 chili. Malnutrito e disperato ha fatto pure lo sciopero della fame e della sete che gli ha procurato complicazioni fisiche a causa dei quali è stato necessario ricoverarlo all’ospedale Centrale, sempre a Camaguey. E’ drammatica la sua esperienza: messo in cella di castigo, tra mosche e formiche ai limiti della sopravvivenza, fino al punto di decidere di lasciarsi morire e di farla finita.

 

Emanuele perché decideste di partire per Cuba?

Era la prima volta che uscivo dall’Italia per fare una vacanza e volevo visitare un Paese tropicale. E proprio i due amici abruzzesi Giovanni e Valentino, con i quali decisi di andare in vacanza, mi consigliarono l’isola nella quale erano già stati e si erano trovati bene. Il nostro rientro era previsto dopo una ventina di giorni, fissato per il 26 gennaio. Partimmo così il 4 gennaio 2009 da Fiumicino, poi lo scalo a Madrid e l’arrivo in aereo a l’Havana, il giorno dopo. I primi giorni sembrava un incanto, cominciammo a girare le spiagge, in particolare quella di Guarda La Vaca. Io all’estero ero stato solo in Germania e per motivi di lavoro, per la mia attività del “Centro Auto” che ho a Tivoli, quindi volevo solo stare qualche settimana spensierato e fare il turista”.

 

Poi cosa accadde quel maledetto 22 gennaio del 2009?

Quella mattina verso le 8 e 30 uscimmo dall’hotel, dove eravamo alloggiati, con una Peugeot 206 di color grigio per andare verso la città dove poi saremmo partiti quattro giorni dopo. Io ero alla guida della vettura presa a nolo insieme ai due ragazzi abruzzesi. E verso le 10 durante il percorso all’altezza di Guaimaro vedo due poliziotti che mi fanno cenno di accostare, metto la freccia e mi fermo. Davanti all’auto c’era un camion e dalla parte opposta della carreggiata un carretto con un cavallo. Stiamo parlando di strade molto strette e io che amo gli animali rallento per poter agevolare il suo passaggio. Nel frattempo i miei due amici in macchina stavano dormendo. Gli agenti si avvicinano alla mia sinistra, lato guida, e cominciano a parlottare in spagnolo. Premetto che dopo 17 giorni che ero sull’isola non capivo la loro lingua, ma riuscivo ad intuire solo qualche parola e non l’intero senso delle frasi. Così sento che mi dicono vai…vai…e io riparto. Qualche giorno prima eravamo stati fermati e quella parola vai…vai l’avevo sentita ed era tutto a posto. Così ci rimettiamo in viaggio e dopo un’ora in località Sivanicu un posto di blocco con altri due agenti. Metto la freccia, tiro giù il finestrino e il parasole, e consegno la documentazione dell’auto ai poliziotti. In questa circostanza ci chiedono a tutti e tre il passaporto e fanno le loro verifiche nella vicina caserma. Mi fanno parcheggiare l’auto in un angolo. Controllano le nostre valigie, l’interno dell’auto dettagliatamente e ci perquisiscono tutto. A quel punto non capisco cosa stava succedendo in quella fase concitata e il motivo per il quale ci avevano bloccato, così chiedono l’intervento di un traduttore italiano che non è mai arrivato però”.

 

Chicca di cosa è stato accusato?

Si era fatto pomeriggio e dopo una breve paura pranzo ci portano in caserma. Si fa sera e del traduttore non c’è traccia, andiamo fino all’hotel Camaguey ma non riusciamo a parlare con nessuno. I miei due compagni di viaggio  vengono rilasciati subito, mentre io la sera stessa del 22 gennaio vengo portato in una camera di sicurezza di un carcere preventivo. Buttato in un sotterraneo con cinque detenuti cubani. E solo la mattina dopo viene il traduttore direttamente nella sede del carcere. Arriva anche il Fiscale, una sorta di pubblico ministero con pieni poteri giudiziari. Solo in quel momento, secondo le autorità cubane, vengo accusato di non essermi fermato ad un primo controllo segnalato – a detto loro – da un cartello e da un agente, circa una mezz’ora prima. Inoltre, sempre secondo le accuse, avrei dato una botta al braccio al poliziotto mentre ripartivo con l’auto al successivo posto di blocco. Assurdo, perché durante il tragitto non c’era la segnalazione in prossimità dei controlli. Tantomeno avrei colpito un agente e neppure inavvertitamente. E’ stata tutta una montatura, un complotto e una presa in giro contro di me, perché sono italiano e loro ci odiano”.

 

In quei momenti ha sperato che tutto si risolvesse in pochi giorni e che sarebbe rientrato subito in Italia?

Tante sono state le promesse non mantenute. Il Fiscale mi aveva detto che loro mi avrebbero portato all’aeroporto il 26 gennaio, giorno in cui dovevamo rientrare in Italia dalla vacanza. Sabato 24, invece, tornano con un avvocato cubano, ma non gli firmo la delega. Poi nel pomeriggio vengono i miei due amici che hanno cercato di spiegare il tutto all’ambasciatore, ma il Fiscale non sente ragioni e decide di lasciarmi in carcere. Poi a l’Havana viene contattato l’ex ambasciatore italiano Vecchioni che mi rassicura…“Non c’è problema stiamo calmi”. Ma non mi capacitavo perché non aveva fatto nulla. Nel frattempo il 29 gennaio arriva a Cuba mio fratello Paolo che va subito alla nostra Ambasciata, ma riceve solo risposte superficiali. Poi il 31 gennaio ripartono per l’Italia Giovanni e Valentino. Io resto in carcere come in un incubo”.

 

Chicca ventidue mesi di duro carcere tra i detenuti comuni in un Paese di regime.

“I primi venticinque giorni di carcere li ho passati chiuso nei sotterranei con cinque cubani in venticinque metri quadri a riso bianco e minestra. E solo grazie alla solidarietà di mio fratello Paolo che ogni tanto potevo mangiare bene, anche se il più delle volte i poliziotti lo fermavano e si ingoiavano il mio cibo. Dopo vengo portato con forza, come il peggiore dei detenuti, al carcere di Camaguey e lì il capo della prigione mi mette nella cella di “castigo”, dove per potervi accedere bisognava passare per cinque porte di sicurezza. Mi ritrovo in una stanza lunga circa tre metri e larga poco più di un metro e mezzo. Il letto era di cemento, senza lenzuola, poi alla fine un piccolo lavandino, dove l’acqua fuoriusciva solo per un’oretta al giorno. Il bagno? Solo un buco per terra dov’eri costretto a fare tutti i propri bisogni. Durante la notte da lì anche la visita dei topi. Ho trascorso al carcere “Ceramica Roja” trentanove giorni, tra mosche e formiche, con in tutto tre ore di sole e la possibilità di fare solo tre telefonate a mio fratello. Con forza mi avevano rasano i capelli, a me che li ho sempre portati lunghi”.

 

Poi la drammatica esperienza dell’ospedale.

Il mio avvocato aveva scritto al Fiscale dicendo che non potevo stare in quella cella, essendo uno straniero, ma risposero che “l’italiano” stava bene nella cella di castigo. Alla fine la proposta viene accolta e finisco in una stanza di ospedale, tra i malati gravi. Riesco ad avere la forza mentale per aiutarli e sostenerli, c’erano pure i mutilati. Poi il crollo e il pensiero fisso di lasciarsi morire, così dopo quaranta giorni d’angoscia decido di iniziare lo sciopero della fame. Da 89 chili scendo fino a 66’, denutrito e sporco. Debilitato e con la pressione alta vengono a prendermi e mi portano in un altro ospedale, a quella Centrale, dove resto circa due mesi. Mi fanno ventidue flebo in una settimana e nove in un solo giorno, roba da rimettere in piedi un cavallo”.

 

Il giorno del processo come andò?

Il 6 luglio del 2009 mi presentai davanti a tre giudici, insieme al mio avvocato di Castel Madama Marco Caccialupi e ai miei fratelli Paolo e Luigi. Vengo interrogato e ribadisco la mia vicenda paradossale. I due compagni di viaggio non vengono convocati come testimoni. E davanti a due dei tre giudici del Tribunale che dormivano, vengo condannato dal Fiscale a quattro anni di “privazione di libertà”. Il giorno stesso del processo, ammanettato a mani e piedi, mi riportano in ospedale. Il giorno dopo mi portano alla “Condesa” insieme con altri 75 detenuti comuni. Lì mi sento come un ostaggio. Un giorno di carcere a Cuba vale dieci dei nostri in Italia. I rapporti tra i due Paesi sono regolati dalla convenzione di Vienna, quindi io dovevo essere eventualmente, solo “espulso dal territorio nazionale”.

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