Eppure, con la sola licenza di scuola media nel cassetto, finora è stato capace di mettere in rima 150 poesie, sia in italiano che in romanesco, oltre a sei racconti, l’ultimo dei quali un romanzo breve in corso d’opera e dal titolo provvisorio “L’inganno”.
L’unico registrato alla Siae è tratto dalla poesia “Il villaggio abbandonato” e racconta di Antonio, un ragazzo orfano che lascia Lina, la fidanzata incinta, per trasferirsi in città. Una volta fatta fortuna, sposa Roberta una donna molto più giovane di lui e quando lei morirà, lui torna nel villaggio natio oramai disabitato, alloggia in un convento ospite delle suore e incontrerà la sua ex fidanzata: scoprirà che Roberta era la figlia e impazzirà.
Una delle tante storie inventate da Lanciani, sposato, due figli e una nipotina, per anni a fare la spola tra il deposito di piazza Giuseppe Saragat a Tivoli e la stazione Tiburtina alla guida dei bus. Un autodidatta che si definisce “un sentimentale, appassionato di poesia anche se la sa scrivere poco” e che cita Pascoli per ribadire di voler essere “un granello dell’immensità”, snocciolando i versi di Ungaretti, Montale e Quasimodo, Leopardi e Carducci.
Come è iniziata la passione per la poesia?
“A 10 anni già scrivevo anche se sporadicamente, è cresciuta in età adulta: quando ero al capolinea del bus la buttavo giù e a casa la limavo”.
Come la spiega?
“E’ una passione che mi prende e di cui non posso fare a meno. Se mi arriva una parola in mente, la devo rendere poesia altrimenti mi resta un tarlo nella testa”.
La poesia e i romanzi come fuga dalla realtà o un modo per vivere meglio il quotidiano?
“Non si può sfuggire alla realtà, scrivo per gusto, per un bisogno istintuale senza ambire a nulla”.
Ha mai pensato a una vita da scrittore?
“No, anche perché ad essere sincero è un circolo chiuso: sono convinto che se in un concorso gareggiasse una poesia inedita di Leopardi non vincerebbe, perché il primo premio è già designato”.
Le sue letture.
“A 10 anni i fumetti, Tex, L’Intrepido, c’erano storie bellissime. A 30 anni, invece leggevo meno, Allan Poe, D’annunzio, i gialli Mondadori: non so se mi abbiano influenzato inconsciamente”.
Com’è stata la sua vita da conducente?
“Non certo tenera. Ho incontrato gente strana, ma anche tante brave persone, nessuna ha ispirato i miei racconti né le mie poesie. La poesia viene da sé, basta una sola parola”.
Un osservatore attento della realtà come lei che idea s’è fatto dei passeggeri? Saprebbe classificarli?
“I tiburtini sono calmi, al contrario dei sanpolesi, brava gente ma molto strana che s’inalbera subito. Quelli di Castel Madama sono indolenti mentre gli abitanti di Poli sono spacconi”.
Se dico Tivoli?
“E’ stata il mio punto di riferimento soprattutto da giovane, quando andavo a ballare all’Arena Italia o al cinema Giuseppetti o al Centrale. Oggi è diventata un centro caotico dove è impossibile pure trovare parcheggio”.
Il momento più bello?
“Coincide con quello più brutto: è la nascita del primo figlio. Durante il parto, infatti, mia moglie perse molto sangue e fu salvata per miracolo. Il medico se ne era andato a spasso di domenica, ma non credo che ci scriverò mai nulla su questa storia”.
(ma. sa.)