Difficile raccontare gli attimi di terrore, i giorni di paura ed i mesi di difficoltà provati da una donna aggredita e perseguitata dal proprio marito. Difficile condensare in qualche riga una lunga conversazione con Maria, un nome di fantasia scelto insieme a lei, una donna che ha trovato la forza di lasciare l’uomo che aveva trasformato la famiglia in un inferno. Una donna, soprattutto, che ha avuto il coraggio di denunciare la violenta aggressione subita. “Solo per un caso non è finita in tragedia” ricorda Maria, scossa. Sono passati quasi cinque anni, era una sera di maggio. “Eravamo già separati e stavamo divorziando – prosegue -. Una sera mi ha chiamato, era arrabbiato, voleva parlarmi. Si è presentato a casa ed io l’ho fatto entrare, non pensavo potesse accadere una cosa del genere”.
Lui, invece di parlare, è entrato in casa urlando: “Tu sei mia”. “Tu non puoi divorziare”. “Devi fare quello che ti dico io”. Oltre ad urlare ha alzato le mani iniziando a picchiare Maria.
Calci e pugni alla donna con cui aveva vissuto per più di dieci anni e con cui aveva avuto un figlio, purtroppo presente in casa in quei tragici momenti. “Mi ha colpito tante volte, ho avuto una prognosi di trenta giorni. Ma mi sono salvata per poco, se non si fosse rotto una gamba mentre cercava di colpirmi con un calcio non so come sarebbe finita. Ero pronta a saltare giù dalla finestra per sfuggirgli”.
“Quando vivevamo insieme – ricorda Maria – era diventata una lite continua. Lui si infuriava per tutto. Mio figlio, all’epoca aveva 13 anni, andava a scuola, alle medie, e lo dovevo mandare al centro psicologico attivato nell’istituto perché risentiva della situazione. Anche lui non voleva più vivere con il padre, quindi decisi di andare via. Io avevo dei lavori saltuari, però nonostante le incertezze economiche andammo a vivere da soli avviando le procedure per la separazione, prima, e per il divorzio poi”.
“Altre volte ci eravamo sentiti – racconta ancora Maria – fino a qualche mese prima ci vedevamo ogni tanto, anche. Poi lui era andato fuori per lavoro. Al suo ritorno, però, era ancora più aggressivo. Litigavamo spesso per telefono, non accettava la situazione ma io non potevo più vivere in quell’inferno”.
“La mattina successiva andai subito a denunciare, ma è stato difficile dover raccontare ogni volta, davanti alle forze dell’ordine e poi in tribunale, quello che era accaduto. Ho avuto la fortuna di incontrare Daniela Di Camillo e l’associazione “Il Laboratorio del Possibile” che stava cominciando a muovere i primi passi e mi hanno supportato in tutti i modi, dall’assistenza legale a quella psicologica e pedagogica per mio figlio”.
Dove ha trovato la forza di lasciarlo?
“Negli occhi di mio figlio, si cerca di fare tutto il possibile per vederli sereni. Non volevo più fargli sentire le litigate, che erano diventate continue. E’ difficile fare un passo del genere. Ci vuole un po’ di coraggio, magari anche po’ di incoscienza all’inizio. Per me era così. Mi sentivo delusa, preoccupata, arrabbiata. Avevo passato una vita con quell’uomo che poi era diventato un’altra persona. Non sembrava neanche più lui e mi chiedevo con chi fossi stata insieme tutti quegli anni. Era diventato un mostro. E poi passano tante cose in testa, ci si sente anche in colpa perché magari si pensa che possa essere colpa tua che la situazione è cambiata”.
Dopo l’aggressione, invece, ha avuto la forza di denunciarlo.
“E’ stato davvero importantissimo avere vicino delle persone, avvocati e psicologi. Mi hanno dato sicurezza e poi proprio gli psicologi hanno davvero fatto tanto per e per mio figlio. Settimana dopo settimana ci toglievano un po’ di peso dalle spalle, ma il cammino è stato lungo. Il mio ragazzo ha impiegato due anni prima di venirne fuori. Io la notte mi svegliavo continuamente, mio figlio a scuola era come assente. Invece con la giusta assistenza ci siamo ripresi”.
Il processo, nel frattempo, come è andato avanti…
“Si è concluso con un nulla di fatto, è stato tutto archiviato perché per lui era la prima aggressione. Sono rimasta senza parole quando l’ho saputo, mi ha fatto più male che l’aggressione subita. Ho deciso di andare avanti ed è stato presentato un ricorso. La prossima udienza ci sarà prima di Natale. Non mi interessa la parte economica è che trovo ingiusto la decisione presa dai giudici. Quella sera mi sono salvata per un miracolo, poteva andare peggio. E’ giusto che paghi”.
In conclusione, però, Maria vuole lanciare un messaggio alle donne ed alle ragazze che possono vivere delle situazioni simili: “E’ importante chiedere aiuto, ci sono delle strutture, delle associazioni, in cui lavorano dei professionisti che ti danno consigli, ti supportano, ti aiutano. Ogni cosa che mi succedeva, o che pensavo, sapevo di poterli chiamare e loro mi aiutavano ad affrontarlo. Mi hanno fatto capire che non sbagliavo io, che la colpa era la sua”.