Monterotondo – Staminali, la battaglia della famiglia per curare Michela

L’hanno vista migliorare a vista d’occhio: lo sguardo dritto e consapevole rivolto ai genitori, la mano ferma senza più tremori, la postura eretta, il tono muscolare più tonico e forte, la parola più scorrevole. Per chi aveva ricevuto dalla medicina pediatrica una prognosi senza speranza per la propria bambina, quei passi avanti dopo anni di lotta somigliavano ad un miracolo.
Nessuno lo sa. Nessuno lo può dire con certezza. Ma se Michela, una dolce bambina di appena 7 anni, per quel breve periodo ha mostrato miglioramenti evidenti, la ragione potrebbe essere quell’iniezione di fattori di crescita tessutali sulle sue stesse cellule staminali. Michela è riuscita a strappare un solo ciclo di questa particolare terapia, prima che il professore che procedeva con quel metodo sperimentale cambiasse il protocollo di cura, basato anche sulle controverse cellule che fanno parte del nostro corpo, troncando forse di netto anche la possibilità della famiglia della bambina di una cura che sembrava finalmente funzionare.
Così anche la famiglia di Gianluigi Rinaldi è diventata probabilmente vittima del miraggio irraggiungibile di una cura effettuata attraverso le cellule staminali. Una storia simile quelle delle famiglie che, per avere analoghe cure (poi comunque negate), erano dovute ricorrere ad un giudice chiamato a decidere per loro. O come il caso di quelle che hanno visto cadere un muro insormontabile sulla strada per il cosiddetto “Metodo Stamina”, osteggiato e bandito come illegale, ma strenuamente difeso dalle persone malate pronte a sottoporsi a quelle che la letteratura scientifica definisce, con poca fantasia, “cure compassionevoli”. Per Michela il diritto a curarsi attraverso quel particolare metodo è durato meno di un mese. Quando, alla fine di settembre, è tornata insieme alla mamma nella clinica dove veniva effettuata la terapia, il protocollo era stato sospeso. O meglio modificato dopo la pronuncia della magistratura sul caso Stamina, nonostante il medico che lo aveva inventato ed avviato garantiva che fosse tutto legale. Legale o no quella cura funzionava, ma adesso è stata modificata sempre con iniezioni di Fct (fattori di crescita tessutali).
Eppure la famiglia Rinaldi le aveva provate tutte. E non intende certamente fermarsi. “Per i figli tutto è lecito, tutto è possibile”, racconta Gianluigi. Lui e sua moglie Caterina Notarangelo – 40enne impiegato lui, due anni più grande ed insegnante elementare presso l’istituto Comprensivo eSpazia lei – da tre anni combattono insieme alla figlia Michela la più dura delle battaglie. Seconda di tre figli, nel 2010 a Michela è stata diagnosticata la malattia di Alexander, una leucodistrofia degenerativa rara e letale, per la quale non esistono cure. La medicina gli dava pochi anni di vita, ma Michela e i suoi occhi azzurri è ancora qua a combattere. Lotta insieme ai suoi genitori in un continuo di visite, viaggi della speranza, costose terapie, cure a domicilio, esercizi di contenimento, pareri di luminari.
La malattia genetica è degenerativa e porta ad un declino a cui Michela non intende rassegnarsi. Caterina, la mamma, si divide tra il lavoro con i suoi bambini a scuola e la sua bambina speciale. “Tutto è cominciato un giorno, dopo la nascita del nostro ultimo figlio. Michela aveva cominciato ad avere difficoltà nel parlare. Pensavamo che fosse una forma di gelosia verso il nuovo arrivato. Ma non era così”.
La diagnosi è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Il medico di Milano che l’aveva visitata, aveva detto ai genitori di rassegnarsi e di concentrarsi su gli altri due figli. Caterina e suo marito non hanno seguito il macabro consiglio del dottore e hanno cominciato a lottare. Solo che le cure mediche per questa malattia non esistono: si possono fare delle terapie di mantenimento, quali logopedia, psicomotricità e, in più, la terapia in acqua. Cose utili, ma molto lontane dal concetto di cura. Anche loro, dopo lo scoppio del caso stamina, aveva sperato di inserire la bambina nelle liste d’attesa. Niente, un altro muro. “Eravamo pronti a partire per la Cina, dove la legislazione sulle cure staminali è molto diversa, ma poi anche lì la normativa è cambiata ed è saltata un’altra possibilità”, spiega la mamma.
“Fino ad oggi – continua Caterina – siamo riusciti a mantenere un buon stato fisico a nostra figlia grazie al dottor Massimo Montinari. Che, con il suo protocollo terapeutico e il suo amore per i bambini, ci ha dato una speranza e qualche miglioramento evidente in nostra figlia c’è stata”.
Di fronte a tutte le porte chiuse, ad un certo punto, uno spiraglio di luce era arrivato da quella voce che aveva suggerito alla famiglia di tentare in quella clinica privata. Clinica nella quale, si diceva, tra le varie terapie era stato attivato un protocollo con la cura attraverso dei fattori di crescita dei tessuti con proprie cellule staminali, prelevate dai tessuti adiposi. A Michela era stato prelevato una piccola quantità di liquido trasparente dall’anca, zona molto ricca di staminali. Dopo alcune ore quel liquido veniva reiniettato sottocute alla bambina. Dopo quasi un mese di trattamento i risultati erano stati incredibili. “L’effetto su di me è stato fortissimo. Vederla stare così bene ci ha dato una speranza”, spiegano Gianluigi e Caterina. Progressi enormi, mai avuti con nessuna altra terapia. Grazie alle staminali? Probabilmente sì. “Quando siamo partiti per la clinica – raccontano i genitori – avevano sentito delle voci riguardo l’uso di cellule staminali. Sulla carta non abbiamo traccia di questo tipo di trattamento, quindi non sappiamo dire con certezza se le staminali fossero state usate o meno. Quello che è certo è che con quel tipo di terapia nostra figlia era molto migliorata. Era evidente anche per i medici che l’hanno visitata successivamente. Un’altra cosa certa – raccontano i genitori – è che dopo la modifica del protocollo non abbiamo notato ad oggi quei miglioramenti rapidi di prima”.
Un sogno, o forse un miraggio. A fine settembre erano pronti a partire nuovamente verso la clinica privata, ma già si era sparsa la voce che quel protocollo specifico era stato cambiato. Un altro muro ha tagliato la strada della famiglia. Una possibilità di cura negata. “Proviamo rabbia – spiegano i genitori – perché non capiamo il motivo per il quale una cura che può dare tanto sollievo e beneficio debba essere negata. Perché? Dove sta scritto? Noi abbiamo visto i miglioramenti, eravamo qui. Come li hanno visti i suoi fratelli?”. Caterina, Michela e Gianluigi sono pronti ad andare avanti. “Siamo pronti ad andare all’estero, per seguire strade negate nel nostro Paese”, spiegano. Anche perché i genitori sanno perfettamente che per i propri figli si può fare tutto il possibile. Anzi, si deve.

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