“Papà mori di cancro, una odissea nel dramma”

La lettera di Valentina Tonchei, una giovane di Palombara Sabina

Caro Tiburno,
mi chiamo Valentina e mio padre, un uomo in salute di 61 anni, si chiamava Gianfranco. Non voglio raccontare la nostra storia, bensì mi piacerebbe parlare della storia di tante figlie e tanti padri che ogni giorno vivono l’Odissea delle cure a seguito di una diagnosi di tumore.
Mio padre inizia a sentire che qualcosa non va circa 9 mesi fa, a gennaio 2021: iniziamo la lunga trafila delle visite specialistiche, rimbalzati da uno specialista all’altro, pagando cifre spesso a 3 numeri per poter accelerare i tempi e capire che cosa non sta funzionando.
A maggio 2021, dopo 4 mesi passati negli ospedali della capitale, ci viene data la diagnosi: adenocarcinoma polmonare al III stadio, non operabile. La comunicazione ci è stata fatta velocemente, in piedi, tra la porta di uscita del reparto e la porta di ingresso della sala infermieri. A seguito della diagnosi ci siamo imbattuti nella lungaggine delle attese: bisogna attendere il giorno e l’orario giusto per poter parlare con il reparto di oncologia, bisogna attendere per poter avere risposte più certe su che tipo di cura è possibile intraprendere, bisogna attendere per ricevere una giusta terapia del dolore… aspettare, aspettare ed aspettare.
L’assurdità più grande è stata rendersi conto che per un paziente oncologico (con una diagnosi di tumore al IV stadio perché solo dopo la lunga attesa ci hanno comunicato che “c’era un’imprecisione, la PET ancora non era stata svolta”), piegato in due dal dolore e con fatica a respirare, non esistono, qui a Roma, percorsi assistenziali dedicati: abbiamo dovuto passare una notte ed un giorno su una barella in pronto soccorso prima di poter essere ricoverati in un reparto dedicato, saremmo dovuti passare per il pronto soccorso per fare una lastra al polmone quando lo stesso esame medico fatto in contesto domiciliare non ha esposto mio padre alla sofferenza ed alla vergogna.
Il nostro servizio sanitario nazionale ci ha offerto solo i pannoloni, ma non le traversine, quando andare al bagno era impossibile; ci ha offerto delle cure palliative domiciliari con una lista d’attesa di 15-20 giorni anche quando tutti quei giorni sembravano un’eternità irraggiungibile. La burocrazia, la mancanza di organizzazione tra i diversi reparti ospedalieri, le attese interminabili prima della chemio, la mancanza di comunicazioni efficaci…questo ha reso la malattia di mio padre un’Odissea: questo ci ha consumato giorno dopo giorno.
E’ per accendere i riflettori su tutto questo, caro Tiburno, che vorrei il suo aiuto: mio padre non c’è più, si è spento nella sua casa ed in serenità perché ha avuto accanto una famiglia che non si è arresa a tutto questo. Noi abbiamo lottato: abbiamo cercato medici che ci prendessero per mano, preteso risposte, minacciato denunce, chiesto aiuto in tutti i modi e in tutte le forme che conoscevamo. Ma non era questo il nostro compito, non è questo il compito di una famiglia che si trova ad affrontare un dramma come la morte.
In tutta questa storia se c’è una cosa che ho imparato, è che ognuno di noi può trasformare la propria rabbia ed il proprio dolore in qualcosa di utile per sé e per gli altri. Ognuno di noi può fare la sua parte: ognuno di noi può scrivere a Direttori Sanitari, Medici, Responsabili non accusandoli con rabbia, ma mostrando con compassione cosa poteva essere fatto, cosa dovrebbe essere fatto ed invece non è stato.
Mio padre non tornerà, ha perso la sua battaglia. Ma ci sono ancora tanti Gianfranco che hanno diritto ad essere presi per mano ed accompagnati in un percorso di cura. Mi aiuti a renderlo possibile, raccontando le nostre storie.

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