Lo chef Riccardo ci racconta il “Dark Side of the Food”, un mondo difficile, ma che sa dare molte gioie. 

“Ho fatto lo stage con Carlo Cracco, quando è arrivata la notizia non ci credevo”

 

di Lucrezia Roviello

Riccardo ha 27 anni. Quando era piccolo amava cucinare insieme alla nonna, la quale gli ha trasmesso la passione per la preparazione di cibi e le conoscenze per poterlo fare al meglio… e sì, stiamo proprio parlando di quelle belle ricette della nonna che tanto ci piacciono! “Ogni volta che aveva i sacchetti di fave e fagioli, io ero lì con lei a sbucciarli!”. Durante il periodo scolastico, fra i suoi programmi preferiti c’erano quelli trasmessi su Alice e il Gambero Rosso. Ha frequentato la scuola alberghiera a Palombara Sabina per i primi 3 anni, dopodiché ha conseguito la parte di specializzazione alla scuola di Fiuggi: “Solo che ci sono stato un giorno, poi sono tornato a Palombara. Non mi piaceva l’ambiente: ero l’ultimo arrivato della classe e sono stato preso di mira.”. Compreso che quel tipo di ambiente “a base di nonnismo” non era assolutamente il posto giusto per lui, Riccardo è tornato a Palombara, dove aveva le sue amicizie e la sua vita e da lì, la strada è stata tutta quanta piena di grandi soddisfazioni che lo hanno portato anche all’estero. Nei suoi progetti per il futuro brilla l’idea di aprire un ristorante piccolo, piccolo, piccolo, ma non possiamo “spoilerare” più di tanto su questo progetto in cantiere.

 

Da quando è nata la tua passione per la cucina?

Tutto nasce da quando ero bambino. A quattro, cinque anni stavo da solo perché i miei lavoravano tutto il giorno e la sera gli facevo trovare qulacosina di pronto. Salivo sulla sedia e preparavo qualcosa… ovviamente a fornelli spenti, altrimenti bruciavo tutta casa! Mi è sempre piaciuto mangiare e preparare da mangiare. Questa passione era molto naturale e dopo le scuole ho capito che questo era il percorso giusto per me.

 

Dopo il periodo scolastico cosa hai fatto?

Dopo che dalla scuola di Fiuggi sono tornato a Palombara Sabina, ho deciso di spostarmi in Svizzera.

 

Perché proprio lì?

Avevo un amico che aveva un ristorante, in più mi piaceva il posto e questa combo “posto bello” e “cucina” mi ha convinto. Sono andato su e ho fatto la prova che lo ha convinto subito. Finita la scuola, sapevo cucinare, non sapevo dove mettere mano in cucina.

 

Come spesso avviene c’era molta teoria, ma una pratica da affinare.

Sì, sapevo cucinare. All’inizio, infatti, ho lavato i piatti. Poi mi è stato detto di preparare delle insalate, poi, dopo queste, di incominciare a fare la frittura. Una volta fatta quella sono passato ai primi e poi ai secondi… dopodiché mi arriva una chiamata dalla scuola di Palombara e mi viene detto: “Riccardo, c’è una posizione aperta ad Abu Dhabi come commis all’Ethial Towers.”. Io, tutto convinto di questa situazione, mi licenzio dalla Svizzera e, una settimana prima di partire, vengo richiamato: il progetto è saltato.

 

Che progetto era?

Si trattava di lavorare in un ristorante italiano molto semplice di cucina tradizionale.

 

E cosa è successo dopo che è saltato tutto?

Ci sono rimasto molto male, ma casualmente mi richiamò il proprietario del ristorante in Svizzera che proponendomi di risalire. Una volta tornato, lo chef è andato via e automaticamente sono rimasto il solo responsabile di quella cucina.

 

Quindi sei subentrato tu!

Sì sì, sono subentrato io e la cosa bella è che avevo circa 20 anni. Paura non ne ho mai avuta e in più il proprietario mi ha sempre seguito. Lui è una persona squisita: aveva lavorato in TV con Wanna Marchi nei suoi primissimi programmi. Lui mi ha fatto da maestro e mi ha insegnato tutto quanto, anche cose difficili come imparare a conoscere le persone.

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Ti è capitato mai di dover insegnare questo mestiere?

Sì, mi è capitato in ALMA, quando ho fatto la scuola di Gualtiero Marchesi, che si dice essere la miglior scuola al mondo di cucina italiana. Ho fatto l’assistente in quella scuola e quella è stata la mia prima esperienza. Venivo da un bel percorso formativo e sapevo come gestire i ragazzi e insegnargli le cose. Lo studente è come un cliente, solo che gli stai spiegando le cose. Ultimamente ho collaborato con Valerio Braschi e abbiamo insegnato per due lezioni al Gambero Rosso e prossimamente ci chiameranno per farne delle altre.

 

Come è stata questa di esperienza?

È stata un’esperienza bellissima ed era un mio sogno, questo, perché da studente culinario, ritrovarsi dall’altra parte vuol dire aver raggiunto un traguardo importante. E quindi vedere 20/30 ragazzi che ti guardano, ti seguono e ti fanno delle domande, è un’emozione bellissima.

 

C’è differenza tra la cucina come viene concepita in Italia e all’estero, secondo te?

La cucina italiana, vista in Italia, è diversa di regione in regione e paese in paese. Ti parlo di una ricetta conosciutissima: le tagliatelle alla bolognese. In Italia sono tagliatelle, all’estero sono già degli spaghetti. In Italia la preparazione è già diversa dal ragù.

 

Come sono le nuove generazioni, rispetto a quando ti sei approcciato tu a questo tipo di mondo?

Coloro che fanno i corsi sono veramente interessate a fare questo tipo di mestiere rispetto a quando lo facevo io. C’è proprio un cambio: le persone sono più interessate. Già partono con una base che è più alta rispetto a come lo era la mia. Grazie ai format culinari c’è già molta informazione, perciò le generazioni che verranno sono e vanno più avanti rispetto alla mia che ha avuto difficoltà nel recepire e ricevere tutte le ricette. Quando ho iniziato, i miei insegnanti ti nascondevano letteralmente le ricette del tiramisù, quindi non sapevamo né gli ingredienti, né le dosi.

 

E che tipo di insegnamento si poteva trarre?

Qui capivi che quello chef si tratteneva le ricette, invece che insegnarle. Adesso l’insegnamento è più generoso e alla portata di tutti. Se ti serve una ricetta, basta che cerchi su “Giallo Zafferano” e la trovi, o su un canale YouTube.

 

In molti ambiti si vedono tutorial che insegnano un mestiere, l’ambiente accademico – allora – a cosa servirebbe?

Se vuoi aprire un ristorante, o vuoi farti un nome e avere un certo tipo di influenza. L’ambiente accademico ti dà l’etica e ti dà alcune cose che non hanno nulla a che fare con il cucinare: come trattare una persona… o cosa gira attorno al food, o come fare la spesa, come ti devi comportare. Invece per quanto riguarda la formazione online, tu paghi il corso per avere la garanzia di saper cucinare, che è diverso dal fare ristorazione. Se io lavoro in un ristorante e quel giorno manca un cameriere, Riccardo Arcangeletti esce in sala e fa il cameriere, perché ho fatto la scuola alberghiera.

 

Consigli l’ambiente accademico?

Lo consiglio, ma deve essere scelto in base a quella che è la linea del futuro dello studente.

 

Ci sono dei contro in questo ambiente?

Non esistono cucine in cui fai meno di 10/11 ore al giorno. Succede che, per esperienza, ho fatto 13/14 ore al giorno, in piedi. Roba che, a 27 anni, ho proprio dei problemi ai piedi. È un bene che ti diano l’alloggio del personale, perché sei un ospite e non paghi dove dormi. Ma quei luoghi sono distrutti, devastati: ho dormito in posti dove ci sono i topi, o c’è polvere, o dove non c’era riscaldamento durante il periodo invernale. Questo non dovrebbe far parte di questo mondo, ma sono cose che esistono: ho sentito ragazzi chef ai quali chiedono “Lavami la macchina”. Oppure io prendevo il trattore per spalare la neve e permettere alla gente di parcheggiare, quando dovevo stare in cucina. Oppure, dopo che hai lavorato per tutta la settimana, è giusto che tu abbia il giorno libero… ed è successo che questo ti viene negato. Ci tengo a precisare, però, che ora lavoro in un posto sano dove queste situazioni non esistono.

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Cosa ti ha spinto ad andare avanti e a mandare giù il boccone amaro?

Sì è sempre detto che la cucina è così. Andare in un altro posto fa pensare che potrebbe anche essere peggio. A parte le cose belle, ma ho sentito di ragazzi che vengono trattati molto male, se non fai un lavoro bene rischi di prenderci degli schiaffi. Lì, o in situazioni brutte analoghe, non tutti restano fermi. Vogliamo parlare del pranzo del personale? La maggior parte delle volte sono prodotti di scarto. Ecco perché un cuoco, nel giorno libero, non vede l’ora di andare a mangiare fuori, ed essere servito.

 

Cosa dovrebbe cambiare?

Diamo troppa importanza a nomi che pensano molto, ma anche le esperienze che ci portano ad avere alcuni nomi sul curriculum costa molto. Ecco, forse, cosa ci spinge ad andare avanti: serve questo tipo di nome, di notorietà, per diventare qualcuno… per farti conoscere. E quindi si va incontro a queste situazioni. A livello umano credo che chi agisce in questo modo ha qualche mancanza professionale e dal punto di vista lavorativo forse neanche arrivano al livello di quei ragazzi che stanno sfruttando. È per questo che ti tengono sotto bastone con le loro richieste. Stiamo parlando dell’Italia: è così. Stiamo proprio parlando di un sistema che vuole che ti comporti in un determinato modo. Come possiamo terminare questo sistema? Sai quante persone se lo stanno in questo momento?

 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

In questo periodo sto pensando molto a questo: il primo progetto che ho è quello di aprire molteplici locali. Nel 2021 dicessi “Voglio aprire un ristorante”, mi sentirei chiuso in una gabbia. Ora posso fare tremila cose: aprire un locale di aperitivi ed incentrarlo su qualcosa di moderno e che va. Vorrei aprire un ristorante piccolo piccolo piccolo. Lo svelo a voi: è un ristorante con un tavolo di massimo due persone. Il concetto di ristorazione cambierebbe totalmente, deve essere un’esperienza sensoriale, come quando vai al cinema, esci dalla sala: quando esci dal ristorante devi essere convinto del fatto che non hai mai fatto un’esperienza così. Ho tante idee in mente.

 

L’esperienza con Carlo Cracco 

Ho fatto lo stage da Carlo Cracco. Quando è arrivata la notizia non ci credevo. Non riuscivo a credere come, un ragazzo come me, che è partito da Villanova di Guidonia, potesse arrivare fin lì. Lo stage è stato molto impegnativo e ho imparato che quando qualcosa è molto impegnativa, allora è anche molto formativa: tanto le dai, tanto ti dà. Ho fatto tante conoscenze lì dentro, ed è questo ciò che ti manda avanti nel mondo del food e quest’esperienza ha avuto un peso non indifferente sul mio curriculum.

 

 

 

 

 

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