Al Colosseo in scena la morte dell’arte

Il G20 dedicato alla difesa dei beni culturali vuole attestare l’egida del mercato su quel che esiste non sul potenziale produttivo sempre presente

“Riconoscere il valore economico della Cultura”. Su questo grande tema si sono incontrati i venti grandi per la Dichiarazione di Roma e hanno messo nero su bianco i famosi trentadue punti. “Valore economico della cultura”. E bella scoperta! Se non ci fosse un bene e un circuito merceologico staremmo qui a parlarne? Perché a qualcuno di questi soggetti interessa veramente la cultura? (Sì, cultura con la “c” minuscola, quella che descrive un modo d’essere che accompagna la vita di tutti i giorni, un bene di cui si è necessariamente vestiti e investiti).

Si dirà: ‘è un risultato importante perché la Cultura ha fatto ingresso nei lavori del G20’. Di qui la sfilza di intenti: “coordinamento con l’Unesco”, “azioni forti e coraggiose” … Ma sì! Mettiamoci anche che siamo “contro l’impatto dei cambiamenti climatici” e l’insalata è condita meglio. Il Colosseo a fare da sfondo. Riccardo Muti a dare quel tocco in più. E si ripete “l’Italia è tornata ad essere il Paese con maggior siti Unesco”. Con Draghi che da vero mercante rialza: “l’Italia dovrebbe essere interamente sito dell’Unesco”.

E si guarda alla situazione drammatica per cui “oggi oltre il 60% dei musei nel mondo è ancora chiuso”.

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Come se la cultura fosse nei musei. In questi luoghi in cui si preserva la ‘storicità’ prodotta dalla ‘storia’ tutto si fa fuorché promuovere l’arte.

Oggi un artista deve essere nato in buona famiglia o avere agganci nei luoghi che contano per riuscire a far passare il suo messaggio.

Nel nostro modello in cui i grandi centri di ricezione e ascolto decidono, è diventato impossibile battere quel muro invisibile fatto di preferenzialità e di selezioni precostituite.

L’offerta cultura nel Medio Evo trovava maggiore selezione meritocratica di oggi. In quel tempo anche il pastorello si un luogo sperduto poteva essere osservato da un aspirante suo maestro e fatto crescere per diventare Giotto. Piero della Francesca non aspirava al successo mondiale, ai link, agli accrediti nei luoghi del jet set, si preoccupava di riuscire ad esprimere in potenza raffigurativa la sua idea cristologica facendo attenzione a non offendere le tendenze mistiche che rifiutavano radicalmente ogni raffigurazione del divino.

Era quella una cultura che viveva come parte integrante nello spirito del tempo.

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Quella di oggi vive nei rotocalchi, nelle pagine di fascinazione, come indirizzo di investimento certo per un mercato che non sa più dove collocare tanti soldi. Ed è questa la morte dell’arte. La celebrazione del suo potenziale economico confidando unicamente sulla storicità non significa parlare d’arte, ma dell’ “altro” dall’arte.

Quell’ “altro” però che non si riconosce come terreno di confine che con l’ispirazione creativa trova inspiegabilmente punti di accordo

È piuttosto l’ “altro” della mercificazione, della riconduzione a mercato di quel che invece era nato come tentativo di far saltare lo schematismo della raffigurazione come sovrastruttura.

Con il perdurare di questa tendenza vedremo artisti muoversi sempre più in ambiti privati, quasi esoterici. E il mondo delle merci allora avrà vinto definitivamente. E con lui la pericolosa tendenza a tradurre ogni cosa in termini di quantità di bit. Ma continueremo a fare tanti saluti a quelli del Colosseo e rallegrarci perché nell’ultimo mese ha rivisto crescere l’affluenza di turisti con biglietti venduti. Complimenti.

 

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