ANPI – Lettera agli studenti in occasione del Giorno del Ricordo

Di Enrico Angelani, Vice Presidente dell'ANPI di Monterotondo

La lettera

Carissimi ragazzi e ragazze,

a pochi giorni dalla commemorazione del Giorno della Memoria (il 27 gennaio), ci imbattiamo subito con un’altra, quella del Giorno del Ricordo, (il 10 febbraio) anch’essa legata a uccisioni violente di esseri umani in un contesto noto come i “massacri delle foibe”, verificatesi tra il 1943 e il 1945 nell’area del confine orientale dell’Italia. E’ stata una legge (L. n.92 del 2004) a stabilirlo “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

Noi dell’ANPI di Monterotondo intendiamo partecipare a questi momenti di riflessione storica, con lo spirito che animò il nostro illustre concittadino Raffaello Giovagnoli (1838-1915), patriota garibaldino, scrittore, ma che fu anche storico importante, che amava sentenziare che: La conoscenza della storia è un pilastro fondamentale del nostro progredire e la verità storica ne è il presupposto essenziale.

Già negli anni scorsi, su questa ricorrenza, abbiamo preso parte ad alcuni incontri presso gli istituti scolastici del territorio e nel 2020, nel salone del Centro anziani di Monterotondo, abbiamo organizzato un interessante dibattito con lo storico Davide Conti, che ha scritto un libro dal titolo “Occupazione italiana dei Balcani e il mito della brava gente”. Da quella serata sono venuti in risalto molti interessanti elementi di valutazione e di riflessione che cercherò di illustrarvi brevemente in questo mio elaborato rivolto a voi. Preliminarmente chiediamoci perché è stato scelto per la commemorazione il 10 febbraio? Perché si è voluto fare riferimento alla firma dei Trattati di Pace di Parigi del 1947, con i quali sono stati stabiliti i nuovi confini delle nazioni europee, dopo gli sconvolgimenti avutisi con la Seconda Guerra Mondiale. L’Italia, come Nazione sconfitta, dovette cedere, oltre alle sue colonie (Albania, Libia, Etiopia e Somalia), porzioni del suo territorio alla Francia e alla Jugoslavia. Come già vi ho riferito nella mia lettera precedente, molto più rilevante fu la mutilazione che subì la Germania, che dovette cedere vasti territori al confine con la Francia e soprattutto con la Polonia e più di 14 milioni di tedeschi fuggirono, furono espulsi o evacuati dai propri territori. La nostra scelta di questo giorno per commemorare un evento nefasto, ha suscitato più di una perplessità, perché vuole farlo risalire al trattato di PACE. Invece, nel resto di Europa, in tale giorno, si celebra serenamente con la fine del conflitto anche, come da sempre avviene, anche la definizione di un nuovo assetto territoriale, ritenuto il più idoneo ad assicurare gli equilibri necessari a una pace duratura. Noi non dobbiamo mai dimenticarci che stiamo parlando di una guerra che è durata sei terribili anni ed è catalogata come la più sanguinosa che l’umanità abbia vissuto sin dai primordi, come ci ricorda Matthew White nel suo “Il libro nero dell’Umanità” e che ebbe questo bilancio: 61 nazioni coinvolte, sparse su tutti i continenti; 110 milioni di militari mobilitati; 65 milioni di caduti (di cui 47 milioni civili); distruzione di popolosi contesti urbani, ricchi di patrimoni monumentali e artistici, attuata con bombardamenti cosiddetti “a tappeto” o “a tempesta di fuoco” e, infine, con l’impiego esecrabile della bomba atomica.

Dentro questo contesto, come abbiamo visto, c’è l’orrore dell’Olocausto e ora esaminiamo quello delle vittime delle foibe, con il quale s’indicano gli episodi connessi all’uccisione di molti italiani che ebbero per sorte di essere gettati nelle cavità chiamate foibe. Le foibe altro non sono che profonde fenditure naturali che si producono nella roccia calcarea, di cui son fatte le rocce carsiche, tipiche delle Alpi Giulie. Diciamo subito che su questa commemorazione, sin dall’inizio, si sono innestate controverse valutazioni che investono i temi concernenti la: natura del fenomeno (fu pulizia etnica?) degli sloveni e croati nei confronti degli italiani; – entità del numero delle vittime ; – perché del ritardo con il quale si dette risalto a tale tipo di eccidio.

Sul primo interrogativo, nel 2007, si è arrivati persino a un duro confronto polemico tra il nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il Presidente della Croazia, Stipe Mesic, che fu poi diplomaticamente ricomposta con la conclusione che gli italiani non furono vittime di odio etnico.

Per una migliore comprensione di ciò che è accaduto facciamoci aiutare dal contesto storico, partendo dalla Grande Guerra, così nota da noi quella svoltasi tra il 1915 e il 1918 (per molti storici da considerare come la prima delle due immani guerre fratricide tra europei), che con i suoi 19  milioni di morti occupa il quinto posto in quella classifica del White. Essa si concluse con la vittoria del Regno d’Italia che ottenne, con il Trattato Rapallo del 1920 e con il consenso della Serbia, l’annessione delle città di Pola, Zara, Gorizia e Trieste. Su questa area, salvo qualche travaglio di ogni territorio di confine, si mantenne un clima di pacifica convivenza tra la comunità italiana e quella serbo-croata che fu interrotto dall’avvento del Fascismo ispirato a un’ideologia di acceso nazionalismo ai danni degli slavi. Uno dei primi atti del nascente squadrismo fascista fu, nel luglio del 1920, quello di appiccare un incendio a un imponente edificio polifunzionale della Casa della cultura slovena a Trieste, che ospitava anche sindacati, associazioni culturali, un teatro e un caffè. Poi toccò a quello di Pola. Nel 1923, con regio decreto, fu imposto alla comunità dei circa 300.000 sloveni l’italianizzazione dei loro cognomi, della toponomastica e la chiusura delle scuole bilingue. Atteggiamenti di ostilità verso la popolazione slava che si acuì nel giugno del 1941, quando l’Italia, unitamente con la Germania, decise di invadere l’intera Jugoslavia, con l’obiettivo di creare un Mare Adriatico tutto a dominio italiano. L’occupazione italiana, che vide tra i protagonisti anche il generale Mario Roatta (che ben conosciamo da noi per aver soggiornato per ben 6 mesi a Monterotondo quale Capo di Stato maggiore del Regio esercito, che quivi si era stanziato nel 1943), fu molto feroce e si connotò per la distruzione di interi villaggi delle comunità di slavi, incendiando le loro abitazioni con l’uso di lanciafiamme (tant’è che passammo per “Italiani brucia tetti”). Numerose furono deportazioni degli slavi in appositi campi di internamento sparsi su tutto il nostro territorio italiano. Per tali comportamenti, alla fine della guerra, la Jugoslavia post-bellica chiese all’ONU l’incriminazione per crimini di guerra di ben 2000 ufficiali italiani, primo fra tutti il Gen. Mario Roatta (Comandante dell’Esercito italiano nella provincia di Lubiana) il quale tra l’altro sosteneva che: “…abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto.”; per la repressione, sostituì il criterio dente per dente, con dente per testa. Il gen. Roatta fu condannato all’ergastolo per la mancata difesa di Roma, ma si rese latitante riparandosi in Spagna sotto la protezione del dittatore Francisco Franco. Poi nel 1948 fu prosciolto da tale accusa dalla Corte di Cassazione.

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Sopraggiunse, con l’8 settembre 1943 (Armistizio tra l’Italia e i nemici Angloamericani), il caos che vide le truppe italiane lasciate allo sbando senza precisi ordini da parte degli Alti comandi militari italiani, tutti impegnati a fuggire insieme al Re Vittorio Emanuele III, per paura di essere catturati dai Tedeschi (sentitisi, insensatamente, traditi da un alleato, qual era Italia, che realisticamente aveva abbandonato un conflitto che a quella data non poteva che considerarsi irreversibilmente perso. Avrebbe giovato anche alla Germania se l’avesse chiesto) Allora, consideriamo che, se il capo del governo italiano di allora, Gen. Pietro Badoglio, paventando violenze e ritorsioni degli antifascisti impose il coprifuoco anche alla ben blindata capitale (Roma), quale potesse essere la situazione nelle zone di confine dove, come abbiamo visto, si erano accumulate quelle contrapposizioni nazionalistiche e ideologiche. In più nella nostra area le tante violenze subite dalla popolazione civile autoctona, a cui andava ad aggiungersi la più ben strutturata lotta di liberazione dei partigiani condotta dal Maresciallo Tito, che comprendeva anche frange di partigiani italiani. Fu in questo periodo che si colloca la prima fase degli infoibati (da foibe) vittime di violenze, in parte sommarie. Per tenermi più a largo possibile dalle mai sopite polemiche, intendo ancorare le mie considerazioni a un testo della storica triestina Claudia Cernigoi dal titolo: “Le foibe tra storia e mito”. Eccone i punti salienti, tutti suffragati da riscontri documentali:- con il termine foibe si intendono le pretese esecuzioni sommarie che sarebbero state operate dai partigiani jugoslavi in Istria dopo l’8 settembre 1943 e nel maggio 1945, dopo la liberazione di Trieste, Gorizia e dell’Istria; – è da escludere che vi sia stata una pulizia etnica attuata dallo Stato Jugoslavo con l’intento di slavizzare i territori italiani; – il numero degli scomparsi in quel periodo in tutta la Venezia Giulia è stato di 4.122; – molto varia è la casistica dei motivi dei decessi, quali condanne a morte a seguito di processi, denutrizione nei campi di prigionia e, infine, dai morti gettati nelle foibe soprattutto per vendette personali, come, d’altronde, avvenne in tutte le parti d’Europa; – furono 500 le richieste di pensione presentate nel 1945 dai superstiti degli infoibati; – dalla squadra di polizia che esplorò le cavità tra il 1945 e il 1948 nella zona di Trieste, non furono rinvenuti cadaveri di persone gettate vive nelle foibe; – nel dopoguerra ci furono processi contro gli infoibatori che avevano ucciso per vendetta personale, con relative condanne.

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Sulla polemica del lungo silenzio mantenuto sull’argomento foibe di cui si sarebbero rese responsabili le forze politiche di sinistra, e il PCI in particolare, a me sembra valida la considerazione di Davide Conti, secondo la quale a sollevare la questione nei confronti della Jugoslavia del maresciallo Tito avrebbero dovuto esserci  le forze di centro ( Democrazia cristiana, Liberali e Repubblicani) che dal 1947 sono state a governo del Paese, ma che non fecero nulla. Non lo fecero per due ordini di motivi: non offrire il destro per riaprire la questione dei risarcimenti dei danni di guerra derivanti dall’invasione italiana dei Balcani, della Grecia e delle colonie africane, dove l’Italia se la cavò con poco danno; non rianimare le aspettative della Jugoslavia per un processo per crimini di guerra per stupri, deportazioni e fucilazioni nei confronti di 2.000 ufficiali italiani di vario rango, che presentata all’ONU, rimase lettera morta proprio anche per non turbare gli equilibri nell’insorgente guerra fredda. Guerra fredda, che seguì quasi subito quella calda, comportò che i nemici diventarono amici (Angloamericani con italiani, tedeschi e giapponesi) e gli alleati divennero nemici (Angloamericani contro sovietici, polacchi, jugoslavi e cinesi). Ma anche in Italia il fronte antifascista si spaccò e prese forza l’anticomunismo, che creò non pochi problemi nella nostra società. Un esempio dal mio vissuto: andai a fare il soldato nel 1964 e, pur essendo laureato e già funzionario statale, non riuscii a diventare neanche caporale, perché venivo da famiglia di comunisti.

Circa il problema dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra, che comportò gravi sofferenze e drammi a circa 250.000 italiani che vivevano in Venezia Giulia, in Croazia e in Dalmazia, esso s’innesta con quanto disposto dall’art. 19 del Trattato di Parigi che imponeva agli italiani ivi residenti di prendere entro un anno la cittadinanza jugoslava, altrimenti, dopo tale data, dovevano tornarsene in Italia. Per loro, poi al clima di diffidenza reciproca e di vendette, si aggiunsero le incertezze e le paure dell’instaurazione di uno stato socialista che procedeva alla collettivizzazione della proprietà privata delle terre. Fu per questo che l’esodo assunse tale notevole consistenza.

Ho conosciuto, nella mia permanenza decennale nel Friuli e nel Veneto, alcuni degli esuli croati. Di uno di loro, Galeazzo Viganò, noto pittore padovano, sono divenuto amico e mi ha fatto conoscere i Luxardo, che sono i produttori del noto liquore Maraschino, che trasferirono la loro fabbrica da Zara a Torreglia nella provincia di Padova. Nei loro discorsi non ho percepito sentimenti di rancore verso le popolazioni slave, piuttosto spesso si lamentavano che tardavano a arrivare gli indennizzi stabiliti dalla legge italiana quale ristoro per la perdita dei loro beni e attività in Jugoslavia. Mi feci promotore, allora, di una iniziativa per sollecitare tali liquidazioni da parte della Direzione dei danni di guerra presso il Ministero del Tesoro. Uno dei più cari amici del gruppo dei veneti, sull’argomento, mi regalò questa poesia che io voglio dedicare a voi perché riflettiate su quanto vi ho raccontato:

Non è memoria di parte la poesia

bensì poter dire c’ero anch’io

ad Auschwitz, a Buchenwald,

là alle Fosse e nella Risiera;

sì, c’ero io, uomo, alle Foibe

come a Gaza e alle Torri gemelle,

a Kabul e a Bagdad,

anche in Piazza Tien An Men

e alla discarica infame, a Korogocho.

Anch’io c’ero, da entrambe le parti,

così che una memoria rotonda

mi dice tutto il male che ho patito

ma anche tutto il male che ho fatto

la mia umanità vilipesa,

la mia rinnegata umanità,

vincendo l’oblio che stordisce

la speranza di un continuo rinascere

per la libertà e la pace comune.

Solo la piena sapienza dell’orrore

è guida ed àncora d’amore

Che non ci fa complici,

salva il giusto e frena il dèmone

che ciascuno di noi è.

(Giorgio Segato 1944-2011)

Cari ragazzi so che è difficile per voi recepire un passato così carico di tante cose orribili, avvenute soltanto pochi decenni fa, che io, bambino, ho percepito  direttamente. Ma ve le racconto, con raccapriccio ma con la convinzione che proprio partendo dalla conoscenza di questa esperienza noi, insieme voi giovani, possiamo mantenere salda una società che s’ispiri convintamente alla fraternità, che ci suggerisce il brano del poeta Bani Sadi che è posta all’ingresso del Palazzo di Vetro dell’ONU (ricordate una istituzione da considerare come nostro unico e valido  baluardo per il progresso civile e per la difesa della Pace):

Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo, anche le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo (Saadi di Shiraz 1203-1291)

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