GUIDONIA – “Io e lei”, la battaglia di Benedetta contro l’anoressia

Il commovente racconto di una studentessa del Liceo “Majorana”: “Sono una piccola grande guerriera, non mi spezzo: siate forti, siate donne”.

Benedetta ha 16 anni ed è una studentessa del Liceo “Ettore Majorana” di Guidonia, che ha partecipato alla Prima Edizione del Concorso intitolato alla giornalista Simona Boenzi, la premiazione del quale si è svolta lo scorso 19 maggio.

I genitori hanno autorizzato la pubblicazione sul quotidiano online Tiburno.Tv di “IO E LEI”, un racconto autobiografico di Benedetta e della sua peggior nemica: l’anoressia.

Questa è la storia di una donna, di una piccola grande donna, una combattente che ha deciso di urlare al mondo le proprie fragilità e difficoltà raccontando la propria storia: storia di una lotta contro un mostro più grande di lei – è la prefazione di Benedetta al testo in concorso – Questo mostro si chiama Anoressia, e da quando è piombato nella sua vita le ha portato via tutto risucchiandolo come fosse un vortice.

Questa donna sono io, e sto tutt’ora lottando contro questo demone al quale ho scelto di non arrendermi e a cui mai abbasserò la testa”.

IO E LEI

Donne: centinaia, migliaia, milioni, miliardi di donne. Piccole, grandi, adulte, giovani, femminili, maschili, alte, basse, ma tutte donne a modo loro, e uniche nel loro essere donna.

Ognuna di noi, di loro, ha una propria storia da raccontare, qualcosa da urlare al mondo, come piccole formiche che muovono masse di 50 volte il loro peso corporeo: noi, in quanto donne, dobbiamo muovere qualcosa, gridare al mondo ciò che abbiamo da dire.

Ecco, io qualcosa da dire ce l’ho, perché come tante altre sono stata invisibile e continuo ad esserlo, ma ho un’occasione, un’opportunità: far conoscere la mia storia.

Mi chiamo Benedetta, e vi racconterò di me, in particolare: della mia battaglia. Perché sì, noi donne siamo tutte combattenti, ed io, io sono una piccola grande guerriera a modo mio.

Sono quasi due anni ormai che lotto contro un mostro, tanto letale quanto tremendamente subdolo. Questo mostro ti attacca alle spalle, ti prende quando sei distratta, voltata; è un essere astratto, ma assume forme concrete nella mente di chi aggredisce, la forma assoluta del male in un disturbo: si chiama Anoressia, ed è la mia piccola grande amica, il mio demone.

Vi stupirà che parli di Lei come una persona, ma nella mia storia ne fa parte come antagonista primario, un vero e proprio personaggio: uno di quelli che all’inizio dei racconti adolescenziali è il migliore amico della protagonista, e poi si rivela la causa dell’intreccio che si sviluppa seguentemente.

Perché sì, Lei fa così, si finge tua amica e ti illude di lavorare per te, per farti bene, e ti chiede sempre e sempre di più finché, poi, non ti rimane più nulla.

Anoressia si presentò nella mia vita quando avevo appena 14 anni, da lì scombussolò tutto. Mi guidava, mi comandava, ero la sua marionetta e facevo tutto ciò che mi imponeva di fare.

“Non uscire o tutti guarderanno le tue enormi gambe” oppure “salta il pasto di nuovo, guarda che bella che stai diventando” ma no, non era così: Lei è un’ingannatrice, ti illude che tu stia andando dalla parte giusta, ti mette un paio di occhiali che ti offuscano la vista e in un momento la tua razionalità si fonde con un disturbo che ti annerisce il cervello, in un attimo ti trovi sul fondo di un barile pieno di sabbie mobili, in cui più ti dimeni più ti trovi a fondo.

Questo è l’inizio di una storia non molto felice, ma non per vittimismo, è la prima volta che scelgo di raccontarmi; lo dico perché di fatto da quando è arrivata Lei tutto è diventato scuro, nero, buio.

Mi ha allungato la sua mano scheletrica, fredda e rugosa in un periodo di debolezza: tutto era diventato un motivo per allontanarmi da un contesto sociale di cui non mi sono mai sentita davvero parte, per rimanere sola dove tutto si amplifica, e i tuoi pensieri hanno un’eco che rimbomba in testa.

Da qui partono le prime sedute dalla psicologa, con la quale negavo il tutto minimizzando con un semplice “la nausea dovuta all’ansia mi toglie la fame”. E come una catena che crolla stile domino sono iniziati test su test dove mi sono stati diagnosticati diversi disturbi dello spettro ansioso-depressivo.

Ho iniziato a prendere psicofarmaci che la testa mi convinceva non fossero necessari e che di fatto all’inizio non facevo altro che buttare, mentre nel frattempo la mia lotta interiore continuava con la solita entità maligna che si faceva strada in me.

Io non accettavo nulla, mi sentivo un fallimento su tutti i fronti, persino sulla scuola che è sempre stato il primo e unico campo in cui per assoluto sono sempre riuscita a dare il massimo; ma no, non ci riuscivo più, e tutto gravava sulla mia schiena come un gigante peso da trasportare su un sentiero da percorrere da sola.

Ho davvero iniziato a volere una forma di aiuto che colpisse realmente la malattia solo l’estate dell’anno dopo, quando guardandomi allo specchio mi sono detta “basta”. Basta nel vedere in una qualunque superficie riflettente un’immagine distorta, basta privarmi di ciò che mi ha sempre portato gioia ed era diventato mio nemico, basta non sapere più distinguere chi mi comanda il cervello e chi, per davvero, sono io.

Sono, ed ero realmente stanca di non saper più distinguere la realtà e la razionalità dal falso, da Lei.

Così ho iniziato a vedere una nutrizionista specializzata, la quale dopo mesi e mesi di colloqui con psichiatri e psicologi mi ha trovato posto in una clinica, nella quale ho passato tutti i pomeriggi per due, quasi tre mesi, in un regime di ricovero semi-residenziale.

Ma non appena ho scelto di lottare Anoressia si è vendicata, e si è fatta ancora e ancora più strada dentro di me.

Mi sono trovata ancora più invasa da un gas inquinante nella mia testa, ma stavolta non ero sola: ero in un posto circondata da altre donne che come me lottavano con Lei, tutte guerriere e tutte con qualcosa da dire.

Sono la voce di chi non ha abbastanza forza o fiato per strillare al mondo e cacciare i propri demoni, per paura che quegli stessi vadano via solo per prendere la rincorsa ed attaccare nuovamente.

Il percorso non è semplice, è ondulatorio come la crescita, e noi sappiamo che crescere, purtroppo o per fortuna, è un processo: cammini, corri, cadi, ti rialzi e inciampi di nuovo. Un processo che avrei sempre voluto accelerare, saltando, magari, qualche step.

Nessuno mi ha mai detto che affacciarmi nel mondo adulto sarebbe stato facile, ma non ero pronta per questo tipo di dolore: non appena ho messo un piedino nel mondo adulto mi sono trovata inglobata da pensieri, paranoie ed eccomi qui, catapultata in un DCA (disturbo del comportamento alimentare).

Di certo nessuno se lo sarebbe aspettato, sono cose che guardi da lontano con l’occhio giudicante di una persona a cui queste cose non succedono, ma la mia storia serve anche per capire che non è così.

Di qualunque tipo esso sia, nessuno sa gestire il dolore, ed io l’ho fatto a modo mio, creando in me Lei, una falsa amica che mi faceva del male ma che di base mi teneva compagnia; ed io l’ho gestito così il mio dolore, facendo sì che quello fisico schiacciasse quello psicologico, più controllabile, più gestibile.

E alla fine eccome se ho scelto il dolore fisico, difatti quando hai un malessere che ti invade tutto il corpo, localizzarlo sul braccio sinistro mi veniva più facile: lo inquadravo in quei tagli orizzontali, precisi, lineari e paralleli tra loro.

Le mie braccia sono un campo di guerra. Vedevo in qualche modo il dolore abbandonare il mio corpo sotto forma di liquido rosso, denso, scuro; ed è così che trasformavo il dolore psicologico in fisico, e come una successione il dolore fisico in benessere psicologico o, perlomeno, finto sollievo effimero.

Perché difatti non bastava mai, durava sempre troppo poco e ho iniziato a volerne sempre di più fino a perdere il controllo: un deja-vù no? Mi sono inserita in un duplice tunnel, un vortice, una spirale che stavo percorrendo al contrario e che diventava sempre e sempre più stretta finendo per schiacciarmi.

Ciò che si scatena nella mente di una qualunque donna inquinata da Lei è il frutto di anni e anni di insicurezza verso la propria immagine corporea, dovuta anche alle multiple aspettative che ci sono verso il corpo femminile, costantemente sessualizzato e posto sotto occhi giudicanti di persone che se non ne vedono la perfezione neanche ti guardano.

Il problema sta nella società che ci impone un modello malato a cui aspirare, a cui somigliare, che si rivela costantemente irraggiungibile, ed è il seme che fa lievitare Lei nelle nostre menti. Ed è così che arriviamo al presente di una storia iniziata tanto tanto tempo fa e che ancora porto avanti.

Scrivo da una clinica in cui sono arrivata quattro mesi fa e in cui sono ricoverata con regime residenziale. È un po’ triste ma necessario, il fatto che una struttura ospedaliera sia diventata la mia casa, la mia normalità…ma è da qui che racconto un piccolo capitolo del libro della mia vita perché io non sono solo questo: sono una studentessa, un’amica, una figlia, una sorella e un’adolescente qualunque, solo con una storia da raccontare, un po’ come tutti.

Concludo questo capitolo della mia vita mettendolo nero su bianco e sperando che il male che ho dentro faccia da inchiostro, intrappolandosi su carta.

Auguro a me stessa come a chiunque altro stia convivendo con lo stesso mostro di tenere sempre a mente l’obiettivo: dimostrare in primis a noi stesse che in quanto donne nessun mostro potrà mai spezzarci; magari verremo piegate ma la nostra qualità è la resilienza, definita in tecnologia come la capacità di un corpo di assorbire un urto senza rompersi, tenetelo sempre a mente.

Siate forti, siate donne”.

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