Il dramma della ragazza pakistana

Non perdere mai l’abitudine di farci un esame di coscienza prima di ostentare le nostre buone coscienze

Corsa all’indignazione per la ragazza pakistana scomparsa e ritenuta assassinata. Da Novellara nel Reggiano risuona nel resto del paese la rabbia per una storia che sa di Medioevo. Al di là della rete messa in atto dalla magistratura e la cooperazione internazionale per le operazioni di polizia criminale, dovremmo chiederci il perché la cultura illuministica e tollerante non abbia fatto breccia sul mondo.

Il globalismo in trenta anni ha reso disponibili le merci ma non ha fatto girare con altrettanta solerzia i valori guida dell’Occidente.

Da una parte le ragioni le conosciamo bene. Nessuno si è mai posto come evangelizzatore del mondo. Sarebbe stato un errore al pari del cattolicesimo che si è imposto ma portando con sé eserciti e un’ideologia imperialistica. Il confronto con altre culture o ideologie doveva avvenire soprattutto nel rispetto degli altri, ma anche nello studio e nella considerazione delle impalcature di pensiero che sorreggono altri modi di essere.

Ma c’è un’altra obiezione fondamentale che dobbiamo farci. La regola di imporre il matrimonio alla ragazza era vigente anche da noi fino a circa un secolo fa. Davanti a tanta violazione di diritti elementari esce così il caso ancora più estremo che fa giustamente gridare rabbia, come l’indignazione più profonda nel caso in cui la ragazza sia stata effettivamente assassinata.

Fatti però questi doverosi distinguo, dobbiamo fare un po’ di autocoscienza per capire quanto noi siamo stati inclusivi con queste persone. Quanto cioè abbiamo aperto la nostra società, più dello stretto legato al lavoro, alla sopravvivenza e all’acquisizione delle merci necessarie.

L’Istat riporta, nel Lazio, la presenza di 5.963 cittadini nel Pakistan. In Italia sono 121mila. Sulle condizioni di lavoro un documento specifico del ministero dice chiaramente: “Analizzando i livelli retributivi dei lavoratori dipendenti non comunitari si evidenzia che i lavoratori di origine pakistana hanno retribuzioni mediamente inferiori a quelle rilevate sul complesso dei gruppi a confronto. È probabile che la mancanza di specializzazione li espone a ricadute dal punto di vista reddituale: i dati evidenziano infatti come i lavoratori dipendenti della comunità percepiscano retribuzioni mensili mediamente inferiori a quelle riservate ai lavoratori non comunitari di oltre 150 euro: 1.037 euro a fronte di 1.191. Nel caso degli operai agricoli, la differenza, sempre negativa, raggiunge e supera di poco i 200 euro” (in La comunità pakistana in Italia, pag. 6, ed. Ministero Lavoro).

Con ciò non si vuole dedurre che una condizione di violenza e degrado derivi specificamente dal una contraddizione sul lavoro. Si tratta di un’impostazione vecchia che non vogliamo riproporre. Si tratta solo di ribadire che la parola semplice di ‘integrazione’ ha molte componenti, molte varianti, molte derivazioni. Bisogna sempre perseguirle tutte per prenderci liberamente il lusso di indignarci.

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