Monterotondo – E’ morto Alberto Campeggiani, il pediatra più amato della città

“Il sindaco e l’amministrazione comunale – il commento del primo cittadino Mauro Alessandri – esprimono profondo cordoglio per la scomparsa del caro dottor Alberto Campeggiani e ne ricordano l’instancabile impegno professionale ed umanitario, offerto con passione e limpida generosità nei lunghi anni al servizio della comunità cittadina”.

Di seguito proponiamo un’intervista tratta da Tiburno del 1 maggio 2007

 

Campeggiani nasce a Monterotondo il 18 agosto del 21 da una famiglia di possidenti terrieri (le case di sua proprietà sono quelle all’ingresso di Via Vincenzo Federici) ed è stato un po’ il figlio del miracolo perché sua madre l’ha avuto a 47 anni. All’epoca Monterotondo era un piccolo paese di qualche migliaio di abitanti che si estendeva sul pendio. Cosa ricorda della sua infanzia?
“La città era molto carina, molto diversa da com’era oggi. Ci conoscevamo tutti, ci salutavamo per le strade e la città si estendeva all’ingiù sul pendio del mondo, tutt’attorno c’erano vigne. Eravamo 6 mila abitanti, tutti concentrati dentro le mura. La città si estese con l’arrivo di abruzzesi e marchigiani. Ho fatto le elementari e medie alla scuola comunale a Palazzo Orsini, poi le superiori a Roma in via Salaria, poi sono andato all’Università all’Umberto primo. Fui l’unico figlio a fare questa scelta, mi piaceva studiare, avevo una particolare predisposizione per la medicina, volevo fare medicina, realizzarmi come medico e così fu”.

 

Cosa faceva nel tempo libero a Monterotondo?
“Si giocava, anche se io non ero una persona molto incline al divertimento. Gli amici mi venivano a chiamare, a volte era proprio mia madre che li chiamava ‘andate da Alberto, fatelo giocare, portatelo fuori casa!’, diceva loro. Ma io lo facevo malvolentieri, mi piaceva studiare, stare sui libri e ogni volta che ero libero me ne andavo a vedere qualcosa. Spesso mi venivano a chiamare e mi facevo negare. La solitudine mi ha fatto sempre compagnia nella vita, ma nessun rimpianto”.

 

Nemmeno il fatto di non essersi mai sposato?
“Per carità! Tutti hanno problemi con la propria fidanzata o consorte, io ho sempre ascoltato tutti coloro che si lamentavano, visto coppie scoppiare, sentito gente che si sfogava ed in quei momenti pensavo “che bellezza!”, perché io almeno questo tipo di problemi non li ho mai avuti”.

 

Nessuna fidanzata?
“Solo una, quello che doveva essere il grande amore della mia vita. Ma lei mi piantò per un altro e con questo si sposò. Soffrii molto e dissi che ‘basta, sarebbe stata la prima e l’ultima’ e così fu”.

 

L’ha più vista?
“Sì certo, siamo diventati amici col tempo. Poi negli anni scherzando lei mi ripeteva ‘vedi, se avessi sposato te sarei stata meglio’, ed io le dicevo ‘vedi, quel che passa non ritorna’. Tre anni fa è morta. Ma davvero non ho mai sofferto troppo per il fatto di non aver avuto una compagna di vita. Ho avuto molte altre soddisfazioni. E se dovessi tornare indietro sono sicuro che ricompirei gli stessi errori. Sono sempre stato buono e comprensivo, a volte un po’ ingenuo, ma non me ne pento”.

 

Quando decise di realizzarsi a Monterotondo e perché questa scelta?
“Una volta laureatomi e specializzatomi, il mio docente, un illustre della pediatria in tutta Italia, il dottor Frontale dell’Umberto I, mi scelse come suo pupillo per poter lavorare all’Umberto I. Ma a Monterotondo avevo già una proposta di lavoro al SS. Gonfalone. La differenza tra le due era che all’Umberto I non mi pagavano e a Monterotondo mi avevano detto di sì. Rinunciai alla carriera per andare a lavorare a Monterotondo. Frontale si arrabbiò moltissimo, mi disse che ero sprecato per Monterotondo e che gli altri avrebbero fatto carte false pur di poter iniziare la carriera all’Umberto I. A me non importava, era una questione di giustizia, avevo lavorato da specializzato lì per due anni, dovevo iniziare a vedere i miei primi soldi, giustamente”.

 

Rimpianti?
“Non più di tanto. Anzi, credo che se fossi rimasto lì con Frontale, dato che l’anno successivo morì, penso che comunque avendo perso il suo appoggio sarei stato scavalcato da un altro specializzando che avrebbe portato il suo successore di cattedra”.

 

Come andò invece all’ospedale Gonfalone?
“Fu un’esperienza molto formativa, ma poco remunerativa. Corrispose al periodo immediatamente dopo la seconda guerra mondiale”.

 

Cioè?
“All’epoca era una clinichetta e funzionava bene, c’era gente che, sparsa la voce, veniva anche da Roma. Ma era una struttura privata ed era il Comune che erogava i fondi. A volte c’erano e a volte no. Gli anni che vi lavorai io non c’erano soldi, lavorai gratis per due anni. Con me c’erano i colleghi Fiorenza e Moreschi, con cui spesso ricordiamo quegli anni. succedeva a volte che si scatenava il putiferio e noi eravamo solo tre professionisti. Aggiungiamoci anche che iniziavano i primi scioperi. La gente voleva essere pagata e si rifiutava di lavorare, solo che noi avevamo spesso in mano la vita delle persone, non potevamo scioperare. I malati non vanno certo in sciopero”.

 

Cosa succedeva in quei casi?
“Che toccava fare di tutto, arrangiarsi. Lavorare come portantino, prepararsi i medicinali, intervenire per i casi più disparati. C’erano momenti che era davvero la follia. Dopo due anni lì lasciai e mi misi in privato. Lo stesso successe per i miei colleghi. Ce ne andammo esasperati. Eravamo medici sì e tenevamo alla salute delle persone, ma non potevamo continuare a lavorare per la gloria. Adibii ad ambulatorio un’ala della mia casa ed iniziai l’attività. Siamo stati per anni solo due/tre medici di famiglia, eravamo il punto di riferimento di tutti”.

 

Pagato adeguatamente avrebbe continuato al Gonfalone?

“No, no, non credo. Ricordo che qualche anno dopo andai a chiedere una cosa in ospedale e c’era una situazione di tensione molto alta, si stavano addirittura picchiando. Per fortuna che mi sono messo in proprio”.

 

Avere l’ambulatorio sotto casa significa portarsi il lavoro anche a casa…
“Sì, non c’era molta differenza. Chi non trovava lo studio aperto mi suonava al campanello e viceversa. Di notte mi è capitato di svegliarmi e fare visite anche per tre volte di seguito. Ma d’altronde quando uno sta male e tu puoi fare qualcosa, come negarsi?”.

 

Quanti pazienti aveva?
“Tantissimi. Passò la legge per la quale ogni medico poteva avere non più di 2 mila mutuati. Io ero sempre al limite ed ogni tanto veniva qualcuno con una lettera di raccomandazione dall’ospedale e non potevo tirarmi indietro. Io c’ero per i miei pazienti, c’ero per gli altri, c’ero per tutti”.

 

Qualche suo alunno conosciuto in città?
“Il professor Antonino Gatto dell’ospedale Gonfalone, un ragazzo di talento. Venne qui per fare pratica, era molto bravo già allora. Solo che all’inizio aveva un’impostazione accademica, ogni cosa che facevo e ripeteva lui aveva l’abitudine di scriverla, prendeva appunti su tutto. E io gli dicevo ‘su, fai pratica, esperienza, smettila di scrivere’. Ha fatto carriera in questi anni e se lo merita”.

 

Medicina e politica, non ha mai pensato a fare il salto come fanno in molti?
“No, non mi è mai interessato. Oggi è più importante il colore politico, all’epoca non lo era. Io ho sempre fatto il medico e basta. Solo una volta mi trascinarono in politica e mi feci convincere”.

 

Che anno fu?
“Non ricordo. Diventai consigliere comunale, ma non mi piaceva assolutamente. Un caso isolato che non ripetei più. La politica non mi è mai interessata, quello fu uno sbaglio. Ma non mi fregano più…”

 

A parte il lavoro cosa faceva nel suo tempo libero?
“Io ho viaggiato il mondo in lungo e largo e finché avrò energie continuerò a farlo”.

 

Dove è stato?
“Ovunque, farei prima a dire dove non sono stato e anche lì avrei delle difficoltà perché non ricordo”.

 

Allora proviamo così, il posto più lontano?
“Al polo nord, sono partito dalla Finlandia con una nave senza ghiglia. Io non soffro il mare, ma quei giorni lì furono terribili, arrivò una tempesta e stetti male. Ma ricordo di aver visto le albe ed i tramonti più belli della mia vita. Anche al Borneo sono bellissimi”.

 

E’ stato anche lì?
“Sì. Ci fu un fuori programma in quella vacanze. Ma i miei viaggi erano sempre così, organizzati sul momento e  giorno per giorno. Un locale del villaggio turistico in cui stavo mi disse se mi avrebbe fatto piacere conoscere la sua famiglia e passare un po’ di tempo con loro. Eravamo io ed un mio amico. Colsi al volo l’occasione e mi ritrovai in una palafitta sull’acqua a dormire tra moglie e marito, gente molto ospitale. Lì ci si muoveva solo in canoa e dove c’era la terraferma solo in jeep per via delle bestie feroci. Passavamo i giorni a pescare e a cacciare, bellissimo. Loro, come ricompensa, non accettarono soldi, ma solo stoffe e alimenti che gli regalammo, furono felici così”.

 

Altri posti, Australia, Cina…
“Sì sì, ho visto tutto. L’Australia l’ho girata in lungo ed in largo, ma sono stato solo una volta. In Cina sono stato almeno cinque o sei volte e la parte più bella, a mio avviso, resta quella a nord. Sono stato in molti paesi dell’America Latina, in Africa ho visto tantissimi posti, ho girato anche per il Medioriente quando era ancora un luogo sicuro e non segnato dalla guerra. Uno dei paesi che più preferisco resta l’Egitto. E ovviamente tutte le più importanti capitali del mondo, anche se ho sempre preferito muovermi con un bimotore o una macchina e uscire fuori dai classici tour”.

 

Quando ha iniziato?
“Io viaggio da quando avevo 17 anni, da quando mio padre mi mise sul primo treno per Vienna e mi disse ‘arrangiati!’. Faticai con i soldi, avevo problemi di orientamento e per la lingua, mi sentii spesso perso, ma tornai sano e salvo a casa portando con me la grande ricchezza del mio primo viaggio. Che fu anche l’inizio di una serie lunghissima di altri viaggi. Mi sono fermato per l’età solo tre anni fa, sono stato alle Hawaii. Comunque mi muovo molto anche adesso, continuo a vedere i musei che sono la mia più grande passione, assieme ai viaggi”.

 

Con che lingua ha comunicato in tutte queste mete?
“Inglese e tedesco. E mi ha aiutato sempre molto il napoletano che è una lingua molto più internazionale dell’italiano”.

 

Non si è mai sentito in pericolo, è sempre andato tutto bene?
“Per fortuna sì anche se non sono mancate le avventure. Mentre tornavo da Tokjo una volta, a bordo di un bimotore, dovemmo fare un atterraggio d’emergenza per via dell’arrivo di un tornado. Atterrammo in una zona sperduta e lì passammo la notte senza nemmeno aprire il portellone. Nella stessa area c’erano stati episodi di cannibalismo, qualcuno da fuori cercò di entrare dentro, ma noi non aprimmo, aspettammo il passaggio del tornado e la mattina dopo ripartimmo per la nostra meta”.

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