“Nato così”, Arturo Mariani racconta come giocare in Nazionale con una gamba sola

arturo mariani giocoArturo, ultimo di tre figli è nato a Roma, nel quartiere Centocelle. Trasferito a Guidonia Montecelio che era solo un bambino quando i genitori, Gianna e Stefano, hanno capito che serviva una casa più grande. Ha frequentato la Don Lorenzo Milani e si è diplomato al Liceo Scentifico Majorana. Ora studia Scienze della comunicazione all’Università La Sapienza di Roma, attività che gestisce insieme alle sue grandi passioni: la web radio giovani Arcobaleno e il pallone. Ma non solo, perché nel giugno 2015 pubblica il suo libro “Nato così”, una biografia della sua vita, che lo sta portando in diverse scuole d’Italia. Tutti i proventi verranno poi devoluti in beneficienza all’associazione Salvamamme.

 

Come sei arrivato a scrivere “Nato così”?

“Intanto il titolo racchiude la mia vera esperienza. Nel senso che già a tre mesi di gravidanza da un’ecografia avevano avuto modo di comunicare a mia madre che sarei nato con una gamba sola. A quel punto le hanno chiesto che voleva fare. Ma i miei genitori hanno deciso senza alcun dubbio di tenermi e di preparasi all’arrivo di un bambino speciale”.

 

Com’è stata la tua infanzia?

“Le difficoltà ci sono state, ne ho ancora adesso. Ma adesso ho più consapevolezza di me. Da piccolo vestivo la protesi e quella per assurdo era il primo indumento che indossavo ogni mattina. Il problema è che era collegato ad un busto molto rigido, mi faceva camminare male e mi sentivo addosso gli occhi della gente, adulti e bambini. Ho sempre vissuto con la massima spontaneità, la mia famiglia è stata preziosissima, ma questo mi faceva soffrire”.

 

È una mancanza di sensibilità?

“Spesso le persone fanno scelte sbagliate perché non conoscono il problema e non sano come affrontarlo. È ignoranza. Come mi è capitato nelle gite scolastiche l’episodio in cui mi facevano rimanere a disparte per aspettare i compagni impegnati in un percorso per me impensabile. Ecco, con questo libro vorrei raccontare le difficoltà, le sofferenze di chi nasce e cresce con una gamba sola, ma anche la soddisfazione di ottenere risultati importanti. Che è ovviamente molto grande”.

 

Come con il calcio. Da dove arriva questa passione?

“Vengo da una famiglia di romanisti sfegatati e quindi il pallone ha sempre scandito le nostre domeniche. Fin da quando avevo due anni ho iniziato a giocare con gli amici, nei campi di calcio e nei parchetti, con l’ausilio della protesi anche se facevo molta fatica. Poi a 18 anni mi sono liberato. Ho scelto di non preoccuparmi di mostrare come sono fatto e sono passato alle stampelle. Si vive decisamente meglio”.

 

Qual è stata la tua prima squadra?

“Ho iniziato con la parrocchia subito dopo la cresima, e li ho iniziato con i primi tornei. Quando sono passato alle stampelle ho visto che mi muovevo molto meglio e riuscivo a giocare di più. E proprio l’uso delle stampelle nel calcio mi ha fatto pensare che forse qualcun’altro stava vivendo la mia stessa esperienza”.

 

E cos’hai fatto?

“Ho iniziato a cercare su internet per vedere se esistevano associazioni sportive per mutilati, scoprendo un mondo nuovo. Pensa, io per primo non credevo fossimo così tanti. Da lì ho trovato Francesco Messori, un giovane calciatore senza una gamba, che ha iniziato a radunare i ragazzi amputati come lui per portare anche in Italia una nazionale di calcio a noi dedicata. E mi ci sono buttato”.

 

Quando è stata ufficializzata?

“Ad Assisi nel 2012, nel Centro sportivo italiano. Da li abbiamo iniziato a fare un sacco di trasferte, come in Polonia, fino ad arrivare al mondiale del Messico nel dicembre 2014”.

 

Cos’hai provato in questa esperienza

“Emozioni uniche. Non si possono raccontare nemmeno in un libro. Prima su tutto perché ti rendi conto che non sei solo. Oltre al fatto che giocare un mondiale è il sogno di chiunque ami questo sport. C’erano 24 nazioni, con gli stadi pieni. Alla partita d’esordio, proprio con il Messico, per fortuna abbiamo anche vinto”.

 

La prima esperienza della nazionale. Com’è andata?

“Siamo usciti ai rigori con l’Haiti, agli ottavi, e siamo noni a ranking mondiale. Considera che le posizioni sono diverse rispetto ai tornei per normodotati. Qui la quadra più forte ad esempio è la Turchia. Quello che ho potuto vedere è che le formazioni di paesi che hanno vissuto una lunga guerra sono le più forti perché più allenate e probabilmente insieme da molto tempo”.

 

Mentre in Italia è nata con voi nel 2012. Cosa serve per farvi “decollare”?

“Intanto che molta più gente creda in se stessa e si metta in gioco con noi. Conosco anche molti ragazzi qui a Guidonia che vicino senza una gamba ma se ne guardano bene da partecipare ad iniziative come questa. Spesso si chiudono in casa, dentro se stessi. E questo è un male perché io sono l’esempio che si può fare tutto ciò che si vuole. Basta crederci, e fare un po’ di sacrifici ovviamente”.

 

Cosa spinge a giocare a pallone solo con una gamba?

“Be fare i conti con il trauma che si vive. Comunque è una difficoltà nascere senza una gamba o perderla. Ma quel problema deve diventare solo l’un per cento della mia vita. Il resto con il sorriso, la positività, apprezzo ogni cosa che riesco a fare ogni giorno”.

 

Non esiste nessun torneo in Italia per mutilati, perché secondo te?

“È un discorso organizzativo, ma anche un discorso culturale purtroppo. Me ne rendo conto anche quando incontro i ragazzi nelle presentazioni del mio libro. Sorpresi perché riesco a giocare a calcio con le stampelle. Una sorta di diffidenza che va superata”.

 

Per questo hai scritto questo libro?

“Sì. Ma soprattutto per lanciare un messaggio positivo ai ragazzi, ai giovanissimi. Fargli comprendere che la vita va apprezzata per tutto quello che abbiamo, non bisogna pensare solo a quello che ci manca. E lo sport è un veicolo importante per riuscire a trasmettere al meglio i valori giusti da seguire”.

 

La cosa più bella che ti hanno detto in una delle scuole che stai girando?

“Una ragazza di 12 anni in una scuola di Bologna, alla fine della presentazione è venuta vicina e mi ha ringraziato perché le ho fatto capire cos’è la liberta. Meglio non potrei desiderare”.

Veronica Altimari

 

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