Strage Airbus Germanwings, da Barcellona un Paese diviso anche nel lutto

L’aereo decollato da Barcellona e tragicamente schiantatosi sulle montagne alle spalle di Marsiglia rientra in quest’ottica: un evento terribile che colpisce innocenti.

Facendo zapping in queste ore ho però capito una cosa triste e drammaticamente paradossale in questa era globalizzata, l’era dell’Europa unita, della moneta unica, del viaggiare come cittadini europei da un paese all’altro: la divisione schematica paese per paese con i rispettivi morti.

 

Ognuno conta i suoi morti, ognuno piange i suoi “caduti”, e qualcun’altro sotto sotto festeggia perchè nessuno “dei suoi” ci ha lasciato le penne.

Vivere in un paese straniero, nel mio caso Spagna (ops Cataluna) e a Barcellona, ti dà la possibilità di avere un punto di vista differente. Guardi un telegiornale italiano in streaming e poi accendi la tv e guardi un telegiornale catalano e ti senti confuso. Hai la sensazione che si stia parlano di eventi diversi tra loro, a volte lontani non solo nello spazio ma anche nel tempo.

In questi casi la verità sta in strada, tra le gente, come è sempre stato è sempre sarà. Sono a Barcellona, penso. La città da dove è decollato l’aereo, da dove provenivano cinquanta delle vittime, come amano suddividere i telegiornali.

 

Non ho la sensazione di una città in lutto, oggi splende il sole, i negozi sono pieni, i ristoranti aperti, i turisti scattano foto. Io vado a lavoro, nessun minuto di silenzio.

Il mio collega catalano mi chiede: “Hai sentito cosa dicono gli “spagnoli” da Madrid su facebook e twitter? Meglio che sono morti catalani e non spagnoli! Lo vedi, ce l’hanno con noi. Oltre ad essere razzisti, non hanno rispetto per i morti!”.

Prima di rispondere rifletto, conto fino a dieci perché un’osservazione del genere in un momento del genere non la capisco. “Se anche fossero stati mille gli idioti che hanno scritto queste frasi, la Spagna non la pensa così e tu lo sai!” rispondo. Lui mi osserva, ma non è affatto convinto.

 

Finito di lavorare vado al mercato, non ci penso più. Al banco il fruttivendolo chiacchiera animatamente con un cliente, in catalano, e capisco che stanno parlando dell’aereo caduto: mi sbaglio. Sono indignati perchè “tutta” la Spagna festeggia la morte dei catalani. Mi sposto, e la signora che conosco da anni mi chiede: “Cosa si dice in Italia di quello che è successo?”. “Dell’aereo?” chiedo. “No, non hai saputo? A Madrid tutti festeggiano perchè i morti erano catalani e non spagnoli”. Rispondo di non aver visto la tv oggi, pago e scappo via.

 

Tornato a casa, ripenso ancora a quella domanda, ad un popolo che si sente perseguitato. Ci sono i catalani, da una parte e tutta la Spagna dall’altra. Accendo la tv per distrarmi e trovo talk show, tribune politiche e telegiornali che dedicano tutta la puntata del serale non più ai morti, ad un aereo distrutto, alla tragedia. No. Sono indignati anche loro per quei 1000 “idioti” che festeggiano la morte di cinquanta catalani. E al centro di tutto torna il catalanismo, il non essere accettati all’interno del paese Spagna: “Tanto vale ci diano l’indipendenza se non ci vogliono”, ripetono.

 

Non ho visto bandiere a mezz’asta oggi. Ho sentito gente indignata. Non giudico il motivo, rifletto sulle cause. E non mi do una spiegazione.

La morte, con la sua scure e il suo sguardo gelido, non chiede il passaporto. La morte prende quando vuole e dinanzi ad essa ci mettiamo tutti in fila in rigoroso silenzio pronti per l’ultimo Check-in.

Alessandro Neri

 

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