Le chiese e il serpente

Un tempo, a conclusione delle messa il sacerdote pronunciava la frase: ”San Michele Arcangelo sii il nostro aiuto contro la malvagità e l’insidia del diavolo”. La formula, proferita con tono perentorio, risuonava quindi anche all’interno della chiesa di Capena dedicata proprio a San Michele Arcangelo, ove uomini con giacche e pantaloni in uso solo la domenica e donne con i capelli raccolti sopra scialle lavorati a mano ascoltavano a capo chino in attesa della benedizione. A tutti sembrava essere molto lontano il tempo in cui la chiesa si mostrava colma ogni domenica, a tal punto che molti fedeli erano costretti a restare sulla soglia del portone oppure fuori sui gradini. In quel luogo sacro una bambina dallo sguardo sincero e i lunghi capelli biondi per tutta la cerimonia con terrore fissava il serpente schiacciato da San Michele nella raffigurazione dietro all’altare. Ed era proprio a lei che pareva rivolgersi il sacerdote, quando pronunciava il nome dell’Arcangelo al termine di ogni celebrazione domenicale. A pochi metri nella più antica chiesa di Santa Maria delle Grazie, dedicata all’Assunta, a conclusone del rito la stessa formula era rivolta ad un gruppo di fedeli molto più numeroso. All’interno della struttura costruita, attorno il 1709, i devoti indossavano gli abiti di tutti i giorni con scarponi “segnati” da lavoro, terra e fango.

Arrivavano da Fiano Romano, Morlupo, Castelnuovo di Porto e c’era pure qualcuno che giungeva da Riano. Era la famiglia in quarta fila, quella che doveva accontentarsi sempre degli ultimi posti rimasti, ma questo non li turbava perché nella piccola comunità trovavano persone che come loro vivevano in case annerite dal tempo e sgretolate dal vento. La loro vita era racchiusa in una sola stanza spesso divisa con gli animali. C’era una sola apertura, che fungeva da porta e canna fumaria perché  bisognava limitare il più possibile le intrusioni esterne. Davanti all’immagine della Vergine pregavano per una vita migliore, in cui non vi era spazio per materassi di paglia su tavole di legno. I più fortunati, però, avevano l’asino da utilizzare per il lavoro nei campi e una capra per il latte da consumare o da barattare con i fagioli freschi. Non esisteva il denaro di carta. Era questo che raccontavano nella piccola chiesa, dove le candele si consumavano lentamente.

I “signori”-  così chiamavano i fedeli della chiesa di San Michele Arcangelo – non avevano tutti questi problemi, vivevano una vita un po’ più agiata ma la bambina coi lunghi capelli biondi fissava ininterrottamente il serpente raffigurato nella chiesa. L’animale, maledetto da Dio, privato delle zampe, condannato a strisciare e a magiare la polvere, che San Michele, tiene sotto il piede sinistro, i devoti lo ritrovavano nella vita di tutti i giorni. Strisciava in silenzio sussurrando, tentazioni, scatti d’ira, atteggiamenti lussuriosi e sempre più alimentava l’invidia, che albergava negli animi della chiesa di San Michele ove i doni rispetto al passato erano diminuiti e l’olio votivo un tempo abbondante era un ricordo lontano. “Noi” e “loro” è così che ormai iniziavano a distinguersi i due gruppi di fedeli sempre più diffidenti e sempre più in contrasto. Sempre l’invidia serpeggiava nella chiesa della Madonna delle Grazie verso i devoti della nuova parrocchia, che sotto l’abside aveva San Michele Arcangelo al centro, San Pietro, San Paolo, San Luca Evangelista, San Marco Evangelista, San Porfirio Vescovo e San Vincenzo Ferreri.

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L’affresco di straordinaria bellezza presentava sullo sfondo la Rocca, la casa dei committenti, le campagne e il Monte Soratte. A quella raffigurazione si giungeva dopo aver percorso la navata centrale, caratterizzata da dodici medaglioni, che rappresentano i dodici apostoli. Il rancore fra le due comunità sfociava in uno scambio di accuse: “Noi siamo migliori di voi signori” e “Quella chiesa è troppo piccola”. Neppure il giorno dedicato al Signore i due gruppi placavano il loro crescente conflitto. Nessuno si era accorto che il serpente, che ogni volta turbava la bambina dai lunghi capelli biondi, silente si era insinuato fra le due comunità. Sono tutti presi da uno scontro sempre più crescente, capace di urtare la vita privata di alcuni fedeli accusati di adulterio oppure di una vita sessuale promiscua. In quel clima la risata prolungata di una donna era considerato un vezzo del demonio e l’intera comunità veniva considerata lasciva. Fra i pochi metri che separano le due chiese si creava una voragine, attraversata da insinuazioni crescenti. La disputa fra i fedeli, quindi, non poteva non raggiungere il Vescovo della Sabina, un giovane uomo di fede, che conosceva molto bene il territorio, perché per ben otto anni era stato il sacerdote della chiesa dedicata a San Michele Arcangelo.

La sua pacatezza e, soprattutto, la conoscenza delle mille debolezze umane rafforzavano sicuramente le innate qualità di mediatore, nei confronti di un territorio verso il quale si sentiva ancora molto legato. Sacerdoti e parrocchiani, giunti nella sede vescovile, faticavano a riconoscerlo, il loro ex celebrante portava la barba lunga come San Giuseppe, sotto una folta capigliatura nera, aveva due lenti rotonde calate in una montatura color argento. Non aveva perso la consueta gentilezza e quel senso di accoglienza, che non metteva in soggezione la gente del popolo. Proprio in quel momento di confronto con le due comunità in guerra giungeva la notizia di una scossa di terremoto a Capena. La terra aveva tremato solo per qualche secondo e neppure in maniera così forte, la chiesa della Madonna delle Grazie presentava una crepa profonda. Tale avvenimento aveva acuito lo scontro fra le due parrocchie, che raggiunse l‘apice quando le accuse si sostituivano alle preghiere. Dal versante opposto, la replica non tardava ad arrivare: “Ci pensa la Madonna a proteggerci, non certo le vostre preghiere”. In questo clima sempre più infuocato, il vescovo ricordava a tutti che “l’aspetto più importante è fare la volontà del Signore”. Il responsabile delle diocesi esortava i sacerdote a pacificare le anime perché “siamo tutti sulla stessa barca e al primo posto per me c’è naturalmente la sicurezza dei fedeli”. Quasi tutti ignoravano che la vicenda era di competenza dell’istruzione locale chiamata a verificare l’idoneità della struttura danneggiata dalla chiesa più antica di Capena. Uno dei tecnici più anziani aveva ricevuto l’incarico di realizzare una perizia, che rischiava di compromettere il futuro di una comunità capace di abbracciare un territorio molto vasto. I fedeli che si ritrovavano davanti alla loro chiesa chiusa in preghiera osservavano le due finestrelle laterali quasi a piano e la mattonella in ceramica della foto della Madonna con il Bambino inserita nel timpano, mentre il tecnico tirava fuori da una borsa blu una serie di strani arnesi in ferro e dello spago legato a mezze sfere di piombo.

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Il mattino successivo, Capena era avvolta da un silenzio surreale, anche le foglie solitamente mosse dal leggero vento erano immobili. Capena sembrava proprio un dipinto di Jean Coubert, pittore francese noto per raffigurare con particolare maestria paesaggi rurali. Quello scenario silente non piaceva ad una donna anziana la cui smorfia si rifletteva sul vetro della finestra, che incorniciava una lunga via dalla quale si alzava improvvisamente un lacerante urlo proveniente dalla campagna. Questa volta il serpente non era finito sotto il piede di San Michele, strisciava fra solchi di terra e puntava direttamente verso un gruppo di contadini. Il loro volto era sconvolto dalla paura, quando si accorsero che il lungo rettile con la testa piatta non era solo. Altri serpenti neri, grigi e chiari lo seguivano muovendosi in fila indiana. Il coraggio di alcuni capetani di allontanare gli essere viscidi con pali di legno e zappe non era certo sufficiente a proteggere il raccolto, ormai circondato da quella serie infinita di serpi. Fuoco, fumo e lanci di pietre non funzionavano. Tutti così si convinsero che l’unico che poteva scacciare l’incubo era San Michele e, quindi, chiesero aiuto all’Arcangelo. Dopo qualche ora di discussione gli uomini più forti e robusti iniziarono a scavare una grande buca, mentre altri raccolsero rami, erba, foglie e pece.

Un ragazzo teneva fra le mani uno zufolo per attirare i rettili. Iniziò a suonare: gli invertebrati si muovevano verso la buca, ma a pochi centimetri dal vuoto di fermavano. Il piano non funzionava. In quelle ore alla preoccupazione si aggiunse lo sconforto e le donne si raccolsero in preghiera per chieder aiuto a San Michele. All’improvviso la bambina con i lunghi capelli biondi afferrò lo zufolo e con il suo animo puro affrontò i rettili. Le serpi sembravano muoversi all’unisono e puntavano direttamente la trappola. All’improvviso a pochi centimetri dalla buca la bambina smise di suonare ed iniziò a fissare uno per uno tutti quei serpenti. Un mezzo sorriso comparve sul suo viso quando trovò finalmente il rettile del dipinto della chiesa e ricominciò a suonare. Le serpi nere, grigie e chiare caddero nella voragine all’interno della quale la pece prese fuoco ardendo gli essere viscidi. San Michele Arcangelo aveva compiuto il miracolo, le terre erano libere, il raccolto salvo e l’armonia fra i capetani ritornò inaspettatamente fra il suono delle campane a festa. San Michele aveva compiuto l’otto ottobre un prodigio straordinario capace anche di liberare i cuori delle comunità dal reciproco rancore. L’Arcangelo aveva abbracciato anche la comunità della Madonna delle Grazie, costretta ad utilizzare la piccola chiesa per pochi giorni all’anno e in numero ridotto, perché ritenuta non sicura. Per questo due viaggiatori la trovarono chiusa, prima di entrare nella chiesa di San Michele dove incontrarono un uomo con la barba lunga come San Giuseppe e gli occhiali color argento intento ad aprire la porta d’ingresso. I due stranieri iniziarono a dialogare con quell’uomo vestito di nero spostandosi verso l’abside incuriositi dal miracolo ormai noto in tutto il nord est ma non sapevano ancora di trovarsi dinanzi ad uno dei protagonisti della vicenda.

Fernando Giacomo Isabella

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