Guidonia – L’arrivo di Fra’ Andrea Stefani: “Trasformerò la violenza in amore”

La prima chiesa per un francescano alto più di uno e novanta alla sua prima esperienza da parroco. Sarà per la sua imponenza che sembra non fargli temere nulla o per la sua straordinaria capacità comunicativa, certo è che fra’Andrea, il figlio di Pietro, compianto insegnante e presidente dell’azienda di soggiorno di Tivoli, e di Teresa, casalinga, pare proprio destinato a lasciare un segno.
La maturità scientifica al “Lazzaro Spallanzani” di Tivoli, due fratelli e due sorelle che vivono nella Superba, questo pezzo d’uomo che a vent’anni lasciò tutto per il saio non ha peli sulla lingua. “La città è piena di poveri e il Comune deve aiutarli”.

 

Come è nata la vocazione?
“Avent’anni, quando insieme a un gruppo di giovani iniziai un cammino parrocchiale nella chiesa di San Francesco, a Tivoli. Erano gli anni in cui i miei coetanei o protestavano o si facevano carico dei problemi della gente, risolvendoli con la rabbia e la violenza”.

 

E voi?
“Anche noi cercavamo la difesa dei diritti della gente, ma avevamo la fortuna di avere il dono della Fede, della mediazione, con cui portare avanti il nostro impegno politico. Dopo trent’anni sono felice di aver scelto una vita di sacrificio, ma di sacrificio gioioso, di rinuncia a una famiglia mia per una famiglia più grande qual è quella che oggi mi viene offerta”.

 

Perché frate e non prete?
“Perché Francesco d’Assisi è stato determinante nella mia scelta. La spiritualità francescana è un altro aspetto che ha segnato la mia vita alla ricerca di come arrivare al cuore di tutti senza distinzione e pregiudizio”.

 

La famiglia quanto ha influito?
“I miei erano cattolici. Per questo prima di diventare sacerdote ho avuto un conflitto con la famiglia: pensavo ci fosse una predeterminazione, un plagio, non mi sentivo libero e ho dovuto fare un faticoso cammino di liberazione interiore”.

 

Come l’hanno presa a casa?
“Bene. Eravamo cinque figli, se ne perdevano uno, ce n’erano altri quattro”.

 

E gli amici?
“Mi sostennero in questa scelta. Ricordo che proprio quando dovevo ritirarmi in convento, mio padre stava costruendo la casa dove abitiamo attualmente e non mi voleva lasciare andare perché stavamo facendo le gettate di cemento armato. Io lavoravo parecchio, ero un buon manovale e papà non poteva fare a meno di me. Ebbene, i miei compagni mi sostituirono”.

 

Conosce la comunità di Guidonia?
“Relativamente. Sto cercando di farlo e ho partecipato a un consiglio comunale per rendermi conto dei progetti, dei modi di essere e di vivere di questa gente”.

 

Che idea s’è fatto?
“Che purtroppo i miei parrocchiani sono assenti dal controllo dell’amministrazione pubblica. Perciò i politici di questa città non sentono l’obbligo di rispondere del loro operato a chi li ha votati: una volta eletti, si sentono svincolati dal rapporto col cittadino”.

 

E allora?
“E allora bisogna aiutare il cittadino a riprendersi questa loro autorità, in maniera tale da aiutare anche i politici ad essere molto più seri nel loro comportamento”.

 

In due settimane s’è già fatto un’idea così precisa?
“Che dovrei pensare se partecipando a un consiglio, si vedono politici che non parlano dei problemi della gente, ma contestano a vuoto?”.

 

Cos’è un frate politico?
“No. Sono un frate di San Francesco che dialoga con tutti e che per aiutare i poveri ha bisogno di collaborare con l’amministrazione pubblica. A me si rivolgono persone che non hanno casa o che chiedono un prestito: chi lo risolvequesto problema, la parrocchia? C’è una grossa sacca di gente che ha bisogno almenodi essere ascoltata”.

 

Che farà? Andrà tutti i giorni dal sindaco?
“No, penso di poter instaurare con lui un rapporto positivo, offrendogli una collaborazione e facendo presente che la gente ha bisogno che qualcuno l’ascolti”.

 

La sua linea pastorale.
“Quella che ci ha dato il vescovo di Tivoli: mettere la parrocchia in uno stato di missionarietà, uscire dal nostro ambiente e raggiungere le famiglie. E’ finito il tempo privilegiato in cui si pensava: suoniamo le campane e le persone vengono in chiesa”.

 

I fedeli vengono a messa?
“C’è una buona frequenza”.

 

Chi ci viene?
“Non sono tutti anziani, c’è una buona parte di persone di mezz’età. E mi sembra anche qualche giovane”.

 

Perché vengono?
“Perché cercano Dio”.

 

Quanti vengono per Dio e quanti per abitudine?
“Forse quelli che intendo io sono una minoranza. Tanti vengono per abitudine o per paura, per un senso di colpa”.

 

Si confessano?
“Durante le celebrazioni c’era la fila”.

 

Qual è il senso di peccato che ha l’uomo di oggi?
“Non ha un grande senso di peccato o perlomeno pensa che il peccato sia qualcosa riducibile a una trasgressione morale. L’uomo riduce la sua accusa di peccato al senso di colpa di una trasgressione nei confronti di Dio che a volte è irrisoria ed è stupida perché non tocca il fondo del problema per cui non c’è conversione”.

 

Cosa determina la conoscenza del proprio limite?
“E’ il contatto con la parola di Dio che ti permette di iniziare un cammino di conversione autentica. Senza questa conoscenza, Dio viene trattato come un giudice che cerca di fare osservare le sue leggi. Ma così non è”.

 

Il rapporto coi giovani.
“E’ quello più urgente”.

 

Perché?
“I giovani godono di una libertà e di un’autonomia all’interno della famiglia, che se da un punto di vista può essere una cosa bella, da un altro mi sembra che sia una sorta di deresponsabilizzazione da parte dei genitori. Sicuramente non c’è un rapporto di dialogo in casa: penso che i genitori non sappiano cosa fanno i figli quando vengono nella saletta o nel campetto parrocchiale. Offrirò loro un incontro dialogico, ascolterò le loro esigenze e i loro problemi”.

 

Chi l’ha preceduta ha subìto parecchi dispetti.
“In effetti c’è una violenza che fa anche parte del mondo giovanile. Questa violenza va gestita, come don Bosco che trasformava la cattiveria in amore e santità”.

 

Il rapporto con gli extracomunitari.
“E’ un rapporto privilegiato perché lo straniero è una ricchezza. Diventa un problema quando se ne ha paura”.

 

Chi l’ha preceduta ospitò alcuni polacchi nel campanile e qualcuno appiccò le fiamme…
“Appunto, la popolazione non è pronta a questo, non è stata educata”.

 

Se accanto alla chiesa costruissero una moschea?
“Dovremmo trovare gli accordi per suonare le campane e per stabilire quando parlare. Il problema non è la moschea accanto alla chiesa, ma una proposta che sia rispettosa degli uni e degli altri. La moschea potrebbe essere ospitata anche nei locali parrocchiali, come succede in Altitalia. L’importante è che sia il momento di contatto, di rispetto e di ricerca comune di un Dio che è al di sopra delle nostre stupide divisioni”.

 

La caratteristica più importante per un pastore?
“Essere come Gesù, avere il suo cuore, i suoi sentimenti, una profonda intimità con lui… essere lui”.

 

L’insegnamento del Cristianesimo più difficile da far applicare?
“La morale sessuale”.

 

Come si insegna la Fede?
“Facendo un’esperienza viva di Gesù Cristo”.

 

Il passo del Vangelo che legge con più convinzione?
“La trasfigurazione di Gesù, l’anticipo di ciò che ci aspetta”.

 

L’evangelista?
“Luca”.

 

Cosa dovrebbe far il Comune per questa parrocchia?
“Penso che dovrebbe fare qualcosa per l’uomo. Sulle strutture di problemi ce ne sono tanti, ma possiamo farcela, ognuno offrendo la ricchezza che ha. Dobbiamo cercare di riportare in parrocchia l’associazione per i disabili “Cieli azzurri” e costruire una casa idonea per i ragazzi assistiti”.

 

Quanto costa portare avanti la parrocchia?
“Sono un francescano e non me la sento di fare questo calcolo economico. Credo molto nella provvidenza, il Signore non ci farà mancare quello di cui abbiamo bisogno”.

 

Il suo sogno.
“Andare via da Guidonia tra molti anni dopo aver visto realizzare il progetto pastorale”.

Marcello Santarelli

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