FIANO ROMANO – Per la morte di Gustavo Checchi chiesto il processo per i vertici aziendali

L'operaio morì cadendo da un tetto pericolante

Lo avrebbero mandato a effettuare lavori su un tetto che sapevano bene essere “precario”, e che ha puntualmente ceduto, senza alcun presidio di sicurezza, ma ora rischiano di dover rispondere davanti alla giustizia e ai familiari della vittima.

A conclusione delle indagini preliminari del procedimento penale sull’ennesimo, evitabile infortunio mortale sul lavoro, costato la vita, il 14 ottobre 2020, a Fiano Romano a Gustavo Checchi, 67 anni, del posto, il pm della Procura di Rieti Edoardo Capizzi ha chiesto il rinvio a giudizio per D. L. R., 47 anni, di Trabia (Palermo), amministratore unico di S. G. Soluzioni Logistiche srl, l’impresa per la quale l’operaio lavorava, con la qualifica di manutentore, con regolare contratto, suo datore di lavoro, e per M. S., 48 anni, di Rignano Flaminio, quale socio della stessa società, procuratore per la gestione del personale e, per citare l’atto del magistrato, “referente unico e preposto di fatto dell’attività lavorativa quotidiana di Checchi, di cui controllava l’operato e che a lui rispondeva e riferiva per ogni attività manutentiva da svolgere”: l’ipotesi di reato contestata è omicidio colposo in concorso, con l’aggravante di essere stato commesso con la violazione delle norme antinfortunistiche.

Chiesto il processo anche per la Soluzioni Logistiche come soggetto giuridico nella persona del suo legale rappresentante, S. G., 59 anni, di Roma.

Riscontrando l’istanza il Gip del Tribunale di Rieti Floriana Lisena ha fissato al 12 ottobre 2023, alle 12, alla vigilia del terzo anniversario della tragedia, l’udienza preliminare di un processo da cui i familiari della vittima, assistiti da Studio3A-Valore S.p.A., si aspettano finalmente risposte.

Gustavo Checchi, che ha lasciato la moglie, tre figli e i nipoti, è precipitato da un’altezza di sette metri dalla copertura di un capannone in via Prato della Corte, dove si trovava per effettuare interventi di manutenzione che gli erano stati ordinati, a causa del cedimento di un lucernario: un volo che non gli ha lasciato scampo, inutili i soccorsi dei sanitari.

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L’inchiesta, che si è avvalsa delle relazioni degli ispettori dello Spresal dell’Asl Roma 4, ha però appurato come il dramma sia stato tutt’altro che una fatalità. Il Sostituto Procuratore ha in primis accertato che i due imputati, come scrive nella richiesta di rinvio a giudizio, erano “consapevoli dello stato del tetto del capannone, costituito da materiali non sufficientemente resistenti, e degli obblighi di manutenzione ordinaria e periodica dello stesso, del cui accesso la loro società aveva l’esclusiva disponibilità, derivanti dal contratto di locazione dell’immobile e di appalto di servizi stipulati tra la stessa S.G. Soluzioni Logistiche s.r.l. e la società Nissan Italia, locataria dei locali”, che li usava come magazzino.

E nonostante ciò, “per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza e in violazioni delle prescrizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, permettevano e disponevano che Checchi si recasse sul tetto del capannone, in assenza di qualsiasi presidio di sicurezza, per disostruire dei pluviali intasati e per stendere della resina impermeabilizzante, causandone così la morte, avvenuta perché l’uomo precipitava al suolo da un’altezza di circa sette metri a causa del cedimento improvviso di un cupolino”: conclusioni a cui il magistrato è giunto un maniera inequivocabile anche tramite un accertamento tecnico irripetibile disposto sul telefono cellulare della vittima, che ha documentato tutte le istruzioni che gli erano state impartite. Per inciso, il Sostituto Procuratore ha disposto anche una consulenza tecnica chimico tossicologica che ha comprovato come il lavoratore fosse del tutto negativo a qualsiasi assunzione di alcol e droghe, il tasso alcolemico era zero, quindi era “pulito” e perfettamente sobrio.

Le contestazioni

Scendendo nel dettaglio delle violazioni, il pm Capizzi contesta a D. L. R., nella sua qualità di datore di lavoro, anche di aver omesso “di designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi”, “di predisporre il documento di valutazione dei rischi aziendale” e di “effettuare la formazione del lavoratore deceduto in tema di sicurezza e di rischi anche specifici connessi alle attività svolte”, oltre ad aver “autorizzato l’accesso periodico al tetto del capannone, pur se costituito da materiali non sufficientemente resistenti, omettendo di fornire attrezzature idonee a svolgere il lavoro in tutta sicurezza”, e aver omesso “di prevedere per l’esecuzione di lavori di manutenzione del tetto la predisposizione di presidi di sicurezza individuali o collettivi idonei a prevenire il rischio di caduta da un’altezza superiore ai due metri”. Il magistrato inquirente imputa poi a M. S. di aver disposto l’accesso al tetto dell’operaio “pur consapevole della sua assenza di formazione, dell’assoluta carenza delle condizioni minime necessarie per operare in sicurezza e dell’assenza di adeguati dispositivi di protezione individuale e collettivi”.

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Ma, come detto, è stato chiesto il processo anche per l’azienda “perché – conclude il Pm – traeva vantaggio dalla consumazione delle condotte che cagionavano la morte del dipendente imputabili all’amministratore unico e al socio procuratore per il personale e preposto di fatto (…): vantaggio da quantificarsi nella riduzione dei costi e nella massimizzazione dei profitti”, derivanti dalla mancata predisposizione di tutte le misure di sicurezza già ricordate, e “quantificato nelle spese previste per la messa in sicurezza del capannone dopo la morte di Checchi, pari a 95.160 euro”.

I familiari della vittima, attraverso l’Area manager Lazio e responsabile della sede di Roma, Angelo Novelli, per essere assistiti e ottenere giustizia si sono affiati a Studio3A-Valore S.p.A., società specializzata nel risarcimento danni.

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