Una famiglia distrutta nel fisico e nella propria dimensione sociale. Per la malattia sono rimasti allettati, hanno perso il lavoro, sono stati allontanati dagli amici e guardati di sottecchi dai conoscenti. E’ una vicenda drammatica quella che riguarda questa famiglia di Monterotondo che ha visto emigrare in cerca di lavoro i due maschi di casa, costretti ad accettare quel che capitava per portare a casa un po’ di soldi. Per la negligenza dei medici, per le condizioni di lavoro alle quali erano stati sottoposti e per i danni subiti, la famiglia chiede giustizia.
La famiglia vuole portare in Tribunale il Ministero della Sanità
Tutto è finito in un’articolata denuncia penale depositata presso la Procura della Repubblica di Roma presentata dall’avvocato eretino Marco Di Andrea.
Ma sul banco degli imputati la famiglia vuole portare anche il Ministero della Sanità, per far rispondere l’istituzione di quelle che la famiglia ritiene gravi falle nel sistema sanitario nazionale, che non garantirebbe adeguate tutele ai suoi cittadini rispetto alle malattie trasmissibili “importate” dai paesi comunitari come la Romania.
Il contagio sul posto di lavoro
Nel settembre 2012 padre e figlio di questa famiglia di Monterotondo erano partiti alla volta del capoluogo abruzzese in cerca di lavoro.
L’avevano trovato, finendo in una delle imprese della galassia della ricostruzione post terremoto, che da anni gravitano e proliferano in condizioni non sempre legali. Così i due erano finiti a lavorare e a vivere insieme ad altri cinque operai romeni, in una casetta proprio di fronte quella del principale per pochi soldi, 60 euro lui e 20 il figlio. Meglio di niente, comunque. In quella casa si viveva e si mangiava tutti insieme, con un solo bagno e negli stessi spazi.
Nel mese di permanenza dei due a L’Aquila uno degli operai romeni era tornato da Roma, dove aveva trascorso un paio di giorni con dei familiari. Non aveva un aspetto rassicurante: vomito, febbre alta, spossatezza. Nonostante questo continuava a lavorare come un mulo e a vivere insieme ai due eretini. Dopo un mese, nel quale il datore di lavoro non aveva mantenuto gli accordi, i due erano ripartiti per Monterotondo.
Le prime visite mediche: “E’ solo stress”. Poi la pesante scoperta
Tornati a casa il ragazzo aveva cominciato ad accusare gli stessi sintomi del romeno ed era andato dal suo medico di fiducia. Stress, aveva detto il dottore di famiglia, da trattare con un po’ di integratori. Le successive analisi avevano confermato la sua prima diagnosi. Dopo due mesi in cui il giovane stava sempre peggio, il camice bianco continuava a dire che si trattava di un periodo di tensione. Ad aprile con 40,5 gradi di febbre, la famiglia porta il ragazzo all’ospedale di Monterotondo.
Una tac e una visita dei dottori eretini erano bastati per ribaltare in breve tempo la storiella dello stress: si trattava di tubercolosi con escavazione polmonare. Dopo il ricovero urgente al Sant’Andrea per la famiglia si era aperto un baratro.
In quattro mesi il ragazzo, che aveva contratto la tbc da quell’operaio, l’aveva attaccata agli altri membri della famiglia, finiti al Policlinico “Gemelli” con la diagnosi di “malattia tubercolare polmonare con torbosi venosa” e anche il padre era stato contagiato.
Vivere da “appestati”
Per effettuare le cure mediche metà della famiglia era in quarantena e senza impiego né tutele, mentre tutti quelli che li conoscevano iniziavano a trattarli come appestati.
Ora sono tutti guariti, ma il segno di quella malattia è ancora profondo nella loro vita di tutti i giorni. Difficile rimettere insieme i pezzi di una vita pesantemente colpita. Ora ci stanno provando e dalla giustizia cercano un ristoro. Per quanto parziale.