Le lettere dalla prigionia. Tra storia e amore, l’attualità di Aldo Moro

Intervista al professor Miguel Gotor autore del volume sulle missive del Presidente della Democrazia Cristiana

di Sante Casini

 

Il 9 maggio del 1978 in via Caetani fu ritrovato il corpo del Presidente della D.C. Aldo Moro. Il professor Miguel Gotor, storico e insigne studioso, ha analizzato il cosiddetto memoriale Moro e le lettere che lo statista scrisse durante la sua prigionia nel suo libro “Lettere dalla prigionia” edito
da Einaudi.
Ci ha concesso un’approfondita analisi sull’argomento, utilizzando la formula del “dialogo-intervista”

Chi le scrive è più anziano di lei, ha vissuto con partecipazione emotiva e impegno politico il peso di quegli anni la cui esatta ricostruzione storica deve derivare da un lavoro attento e analitico, basato innanzitutto su prove testimoniali. E le lettere in prigionia di Aldo Moro lo sono in modo preminente.
La ricostruzione che oggi facciamo di quei giorni sembra fornire due piani dialettici diversi.
Attraverso i documenti pervenuti, le testimonianze delle Brigate Rosse sembra appartengano a un’età storica remota. La letteratura lasciata da Aldo Moro, invece, ci appare attualissima, consapevole, moderna. Astratto, violento, indicibile, lo stile delle Brigate Rosse. Di grande emozionalità, quello di Aldo Moro. Toccante la testimonianza epistolare che lei riporta a pagina 13. Nella lettera al Segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini: “Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile”. Ritengo che questa, scritta il 31 marzo 1978 e recapitata il 4 aprile, rimanga la lettera più importante. È la lettera con la quale Moro, ancora lucido e speranzoso, scrive sopra il testo citato: “il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze”. Qui Moro vuole indicare alla Democrazia Cristiana una strada da percorrere per trovare una soluzione che gli salvi la vita attivando una trattativa tra Dc e ‘’Partito comunista combattente’’.
Perché gli esponenti della Dc cercarono di screditare quella lettera?
Gli esponenti della Dc e non solo loro si acconciarono a una precisa indicazione del presidente del Consiglio Andreotti e del ministro degli Interni Cossiga. La formula utilizzata fu che quelle lettere «non erano moralmente ascrivibili a Moro» a causa del suo stato di cattività. La formula è assai più sottile di quanto possa apparire a degli interpreti rozzi o ideologicamente prevenuti. Parallelamente si avviò una martellante e spietata campagna di comunicazione, insufflata dal governo, che accreditò l’idea che Moro fosse matto, drogato e incapace di intendere e di volere. Ciò fu fatto per abbassare il valore dell’ostaggio e quindi il ricatto spionistico innestato dai sequestratori che, con i loro comunicati, assicuravano che Moro stava parlando e rivelando loro importanti segreti di Stato. Del resto, lo stesso prigioniero, nella prima lettera a Cossiga del 29 marzo 1978, affermò di essere «sotto un dominio pieno e incontrollato», espresse la convinzione che in «gioco fosse la ragion di Stato» e che egli avrebbe potuto essere indotto a parlare in modo sconveniente. Questa condotta fu suggerita da due qualificati consulenti che il governo scelse per gestire quella drammatica e inedita crisi: Steve Pieczenick, esperto di antiterrorismo e inviato dal dipartimento di Stato americano su richiesta dell’esecutivo italiano, e l’esperto di strategia militare Stefano Silvestri. Entrambi erano consapevoli che fosse una strategia crudele ma necessaria per facilitare la liberazione dell’ostaggio diminuendone il suo valore di scambio. Lo si desume dalla lettura delle loro consulenze al governo che sono state divulgate a partire dagli anni Novanta.
Aldo Moro, come lei ha dimostrato, capisce che una soluzione è molto difficile e intuisce realisticamente che la posizione del PCI. Si doveva votare la Non-sfiducia. Sempre Aldo Moro, nella stessa lettera citata, dice ai dirigenti del PCI che non possono dimenticare dal momento in cui sono entrati a far parte del governo della repubblica per suo merito.
Moro, lucidissimo, sa che il PCI avrebbe stabilito una linea di fermezza che non gli avrebbe consentito di trattare col partito brigatista.
I partiti di sinistra lasciarono alla Dc massima libertà di fare trattative dicendo però che loro non avrebbero voluto saperne?
L’Italia in quei giorni è sotto un attacco terroristico di enorme portata. Uno dei suoi principali esponenti politici e istituzionali viene sequestrato e interrogato dopo che sono state uccise cinque esponenti delle forze dell’ordine. I partiti, in una fase come questa di emergenza, svolgono un ruolo significativo sul piano della mobilitazione politica e civile, ma marginale sul piano delle scelte da prendere perché i luoghi decisionali, come è normale che sia, si restringono in modo determinante. Anche il Parlamento viene emarginato. Conta soprattutto il governo, ossia chi detiene il potere esecutivo e ha la responsabilità e il dovere costituzionale di prendere delle decisioni. Andreotti convocò il 3 aprile una riunione riservata con i segretari della maggioranza in cui disse che se fosse stata questione di soldi il governo avrebbe fatto la sua parte. Tutti i presenti assentirono. Un conto è assumere pubblicamente una posizione, quella della fermezza, un altro è esperire dei tentativi riservati, come ad esempio l’iniziativa socialista, o segreti, come ad esempio la raccolta di un ingente riscatto da parte di Paolo VI, per cercare di liberare l’ostaggio. Che la posizione di Berlinguer fosse possibilista non si desume solo dai suoi appunti sulla riunione del 3 aprile ma anche da una dichiarazione del dirigente Emanuele Macaluso e da una frase attribuita da Cossiga a Ugo Pecchioli che sembra ben riassumere la posizione del Partito comunista sulla questione: «fatelo, ma non ditecelo, oppure ditecelo ma rimaniamo d’accordo che non ce lo avete detto». Peraltro, Andreotti in una riunione del Consiglio dei ministri del 17 maggio 1978 disse che lui ai socialisti non rimproverava il fatto di avere esperito una trattativa, ma di averla resa pubblica.
Il mio giudizio storico da ex comunista che ha ripensato profondamente le posizioni di quegli anni, come tutto l’orientamento generale del mio sentire, è che forse fummo troppo rigidi. Va anche detto che la situazione del Paese, il conflitto sociale in atto, ci avrebbe impedito qualsiasi gesto di accondiscendenza.
Lei ricorderà la posizione del PCI: “comunque si travestono sono dei fascisti, nemici giurati della classe operaia e delle istituzioni democratiche”.
La rigidità del PCI costrinse la DC a mantenere una forte posizione di chiusura negoziale con le Br e in due uomini a lui molto vicini: Cossiga e Zaccagnini. Condivide questa impostazione?
Nel corso di quella emergenza la politica politicante, quella del tira e molla quotidiano e delle lotte tra dichiarazioni a mezzo stampa, ebbe un ruolo sempre più residuale. La partita fu giocata da quattro/cinque capi politici come è normale che avvenga in quelle situazioni. È ovvio che c’era una maggioranza di governo larga da salvaguardare, ma il fronte della fermezza, socialisti inclusi, si mosse pubblicamente – sottolineo pubblicamente – in modo più coordinato e compatto di quanto la stratificazione successiva di ricordi, versioni, mistificazioni, interessi postumi ha voluto e ha lasciato far credere. Bisogna ritornare a quei giorni. Ad esempio, i socialisti, che tennero in quelle settimane addirittura un loro congresso, non dissero mai di essere disposti a uno scambio di prigionieri. Se lo avessero fatto si sarebbe aperta una crisi politica nella maggioranza. Soltanto dopo il 20 aprile si dissero favorevoli a un atto di clemenza unilaterale da parte del capo dello Stato che doveva riguardare detenuti malati e che non si fossero macchiati di reati di sangue. La vede la differenza? Pensi che uno dei socialisti più prestigiosi e rappresentativi Sandro Pertini, dichiarò, per difendere la linea ufficiale della fermezza, che non «intendeva essere costretto per la seconda volta ad andare ai funerali della democrazia» con riferimento all’omicidio di Giacomo Matteotti. Naturalmente, questo non ha impedito ai socialisti e non solo di esperire dei tentativi di trattativa riservata – che il ministro degli interni e il presidente del Consiglio conoscevano benissimo. Ma le sembra mai possibile che Craxi e Signorile si mettessero a cercare un contatto con i brigatisti rossi, a rischio e pericolo della loro vita, senza avvisare preventivamente quella parte di forze di sicurezza e di intelligence di cui si fidavano? E potessero riuscire a farlo di nascosto, all’insaputa del ministro degli Interni e del capo del Governo? Una cosa così non sarebbe potuta avvenire neppure a Paperopoli. Mi creda: se la cultura pubblica di questo Paese, ancora dopo 43 anni questi fatti, preferisce ignorare gli studi nel frattempo usciti sull’argomento per continuare a dibattere di «fermezza e trattativa» in modo nevrotico e sclerotizzato, lo fa solo per non affrontare i veri nodi del caso Moro che evidentemente si preferisce restino relegati al mondo dei ricercatori. È un modo per continuare a mandare la palla in tribuna e continuare a non essere all’altezza di quella tragedia.
La posizione di Giulio Andreotti che, anche nel suo libro, viene presentata come la personalità più politica e più refrattaria alla trattativa, colui che ha limitato Cossiga (ministro degli Interni) e ha corretto la linea di Paolo VI.
Corretta l’interpretazione di Andreotti che si giustifica col vincolo al Patto Atlantico e il pericolo di una rivolta sociale da parte della popolazione perché per Moro si doveva trattare e per altri no?
L’argomento di una rivolta sociale o l’idea che una vedova degli agenti della scorta si sarebbe data fuoco nel caso in cui si fosse trattato fecero parte della propaganda funzionale a rafforzare la dimensione pubblica della propria linea politica. Quando Andreotti disse a Craxi che le carceri si sarebbero incendiate, il segretario socialista rispose «vorrà dire che chiameremo i pompieri»: intendo dire che siamo a un livello di schermaglia dialettica, destinata a lasciare il tempo che trova.
In realtà, il presidente del Consiglio esperì una strategia a tre livelli: 1) pubblicamente scelse la strada della fermezza, il prerequisito logico e pratico per eventualmente instaurare, ove possibile, dei negoziati segreti con la controparte; 2) riservatamente si espresse a favore delle trattative e diversamente non avrebbe potuto fare altrimenti i suoi colleghi di governo lo avrebbero accusato di volere la morte di Moro; 3) segretamente, insieme con l’intelligence e gli apparati militari, esperì dei tentativi per boicottare il negoziato portato avanti da Paolo VI che prevedeva il pagamento di un riscatto, insieme con la definizione di un pacchetto di altre condizioni.
Egli, proprio perché era assai vicino agli ambienti curiali romani e alle gerarchie ecclesiastiche vaticane, considerò quel generoso tentativo di Paolo VI e della famiglia pontificia come un’indebita ingerenza di uno Stato estero negli affari italiani. Andreotti fu convinto fino all’ultimo di potere arrivare alla liberazione di Moro senza dovere pagare il prezzo di un negoziato che avrebbe portato a un enorme finanziamento della lotta armata nella penisola con tutte le conseguenze del caso per la sicurezza dei cittadini italiani. La sconfitta, anzi l’umiliazione, subita da lui e dal governo in quella circostanza hanno portato a stendere un velo pietoso e anche omertoso su quanto effettivamente compiuto in quei giorni in ambito nazionale e internazionale per arrivare a una soluzione di quella drammatica crisi. Certo, lo «gnommero» non era di facile soluzione: bisognava contemporaneamente neutralizzare le dichiarazioni di Moro e il ricatto spionistico innescato dalle Br attraverso un «canale di ritorno», ma anche arrivare alla liberazione dell’ostaggio in cambio del suo silenzio e di un abbandono definitivo della vita pubblica. In effetti, tre anni dopo, con un personaggio di caratura politica e istituzionale minore come Ciro Cirillo, tutti i tre obiettivi furono raggiunti mediante il pagamento di un riscatto che il medesimo gruppo dirigente brigatista accettò di buon grado perché fare la lotta armata e gestire la clandestinità costa molto.
Sono fermamente contrario all’ipotesi retroscenista che dipinge Andreotti come Belzebù, anaffettivo, ma con senso dello Stato e sarebbe stato disponibile a vendere Aldo Moro alle BR. Andreotti ha capito che la trattativa avrebbe disintegrato il paese, che forze antagonistiche avrebbero potuto diventare maggioranza e che GLI USA e la NATO non sarebbero rimasti fermi.
Dopo i complimenti, la critica:
Perché uno storico come lei che analizza i testi e che ne ha rivissuto emotivamente quei giorni non ha voluto rappresentare l’animo fortemente inquieto della nazione? Perché non dare rilevanza a una certa disaffezione da parte dei cittadini nei confronti della democrazia?
Credo di averlo fatto in diversi libri. Poi essi sono affidati allo sguardo, alla sensibilità e alla capacità di comprensione dei loro eventuali lettori. Non appartengono più a chi li ha scritti, sono messaggi in bottiglia affidati alle correnti del mare. Sia scrivere sia leggere sono due atti di libertà.
Condivide la posizione dei giornaloni di quel tempo che tentarono di accreditare su richiesta del ministro degli Interni il fatto che Moro non fosse libero di esprimere il suo convincimento profondo? Ricorderà certamente l’orrenda vignetta di Forattini in cui rappresenta Moro manovrato dalle BR che gli tenevano la mano nello scrivere le lettere dal carcere del popolo.
Crede che Moro fosse affetto dalla Sindrome di Stoccolma?
Ma per favore. Dopo quarant’anni gli stessi che hanno formulato quelle tesi hanno dichiarato in diverse sedi che erano atti di controguerriglia psicologica e di disinformazione. Ripeto, sono serviti a depotenziare il valore dell’ostaggio e il ricatto spionistico-informativo che l’Italia stava subendo davanti agli occhi del mondo.
Grazie a lei il libro illustra magnificamente la grande capacità di Moro di distinguere, facendo tesoro delle idee di Jacques Maritain, la fenomenologia del diritto in cui l’uomo resta al centro del mondo, contrariamente alla retorica molto forte in quei tempi per cui era lo Stato al centro del problema dell’ordine sociale.
È possibile l’ipotesi di un uomo, Aldo Moro, a cui è mancato il senso dello Stato e che è ripiegato su affetti familiari con la paura della morte?
Un’ipotesi è per definizione sempre possibile, ma io sono decisamente contrario a questa lettura. Moro ha dedicato, suo malgrado, la vita alla politica e le sue virtù e le circostanze della fortuna lo hanno portato a diventare un uomo di Stato. Prima a livello nazionale e poi, a partire dalla fine degli anni Sessanta, su scala internazionale, in particolare rispetto al fronte mediorientale e mediterraneo che per l’Italia era uno spazio necessario per ragioni di vicinanza geografica e per motivi energetici e politici. Essere un uomo di Stato è diverso dall’essere un uomo politico. C’è la stessa differenza che intercorre tra l’essere un poeta e uno che scrive delle poesie. Come disse Moravia ai funerali di Pasolini, di poeti «ne nascono tre o quattro al secolo» ed è così anche per gli statisti. Negli ultimi 54 giorni della sua vita si è trovato in una condizione di cattività ed essendo un umanista ha scelto di scrivere per vivere dopo la sua morte. Da allora sono passati 43 anni e mi sentirei di dire che questa sua sfida sia stata ampiamente vinta «se stiamo ancora qui a domandarci e a far finta di niente come se il tempo passato e il tempo presente non avessero la stessa amarezza di sale», come canta Francesco Guccini. Poi certo il mio pensiero va anche all’ingegnere Giuseppe Tagliercio, rapito dalle Brigate rosse nel 1981, brutalmente picchiato dai sequestratori come rivelarono i referti medici e rilasciato cadavere dopo 46 giorni di prigionia. Di Taglierico, che era un uomo come Moro, ma magari aveva meno confidenza con la scrittura di lui essendo di formazione tecnica, non conosciamo lo spillo di un sussurro. Mi piace credere che Moro, con le sue parole e la sua scrittura, abbia voluto testimoniare anche il suo di sacrificio.
Confesso che ora ritengo avesse ragione Aldo Moro. La Storia lo ha dimostrato.
Confidando sulla sua gentilezza vorrei mettere in risalto un altro punto.
Paolo VI, amico del Presidente della D.C. rappresenta l’ultimo tentativo immaginando realisticamente che non avrebbe prodotto alcun risultato. Di qui, la lettera di Aldo Moro al Papa. “Beatissimo Padre, …, nella speranza che voglia favorire almeno la via di scambio di prigionieri politici in cui potrebbero arrivare in momento estremamente minaccioso per me” … Si percepisce un’angoscia e una forte preoccupazione sulla sua sorte. “l’unica che possa legare il governo italiano a un atto di saggezza”.
E Paolo VI scrive ai brigatisti: “Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d’un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore”.
Non pensa che questa posizione avrebbe permesso una di via di fuga alle Brigate Rosse che consentisse loro di non perdere la faccia?
Guardi, confido anche io nella sua di gentilezza. Sulla trattativa vaticana e il ruolo di Paolo VI in quei giorni ho scritto un saggio per la Treccani che si può leggere online a questo indirizzo https://bit.ly/3eMBdgA. Comunque, per rispondere alla sua domanda, penso di sì, che cioé una via di fuga sarebbe stata possibile. Consideri comunque che le Brigate rosse avevano molte facce. Lo pensava anche Craxi durante il sequestro e io sono d’accordo con lui.
Come configura l’espressione di Aldo Moro quando dice di Paolo VI: “ha fatto pochino?”
Non è chiaro al cento per cento se manchi un foglio successivo, come io credo, che quindi potrebbe dare un diverso significato alla frase e al ragionamento di Moro. In ogni caso, se la frase fosse quella e basta, credo che Moro, il quale era prigioniero e quindi riceveva soltanto le notizie che i sequestratori gli filtravano, abbia sbagliato la sua valutazione. Il papa ha fatto molto per liberarlo, questo è ormai assodato.
Perché nessuna resipiscenza delle BR una volta distrutta la figura di Aldo Moro?
Dopo avere ucciso cinque uomini della scorta e averlo interrogato per 54 giorni, la conclusione dell’«operazione Moro» è assai difficile che potesse contemplare una soluzione diversa dalla soppressione dell’ostaggio, un testimone divenuto troppo scomodo. In ogni caso, come certamente è avvenuto, essa ha previsto la rivendicazione politica di quell’omicidio da parte delle Brigate rosse che con quell’atto dimostrarono di fare quello che dicevano e conquistarono così l’egemonia all’interno del Partito armato. Non a caso l’offensiva militare delle Br si registrò in particolare da dopo l’omicidio Moro fino al 1981. E si converrà che per una forza politica che ha scelto di abbracciare la lotta armata l’elemento del numero degli attentati, tra ferimenti e omicidi, non è secondario. Esso crescerà esponenzialmente. Il brigatista pentito Antonio Savasta, colui che ha ucciso l’ingegnere Tagliercio, ha dichiarato che dopo la morte di Moro «c’era la fila per entrare nelle Brigate rosse».

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Sarebbe bastata una lettera in cui si diceva: liberiamo Moro su richiesta del Papa per avere un finale migliore rispetto a quello che la Storia ha ci consegnato?
La storia non ha finali migliori perché non è un film. Come cantava quell’altro? «la storia siamo noi che scriviamo le lettere, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare». Purtroppo, Moro non ha fatto in tempo ad ascoltare la canzone di De Gregori. Per come l’ho conosciuto io, sono sicuro che gli sarebbe molto piaciuta.
Debbo ammettere che Moro è stato l’ultimo grande uomo politico. Forse Berlinguer, possiamo metterlo accanto come grande personalità. In questo paese non c’è mai nessuno che fa autocritica per ammettere i suoi errori.
Ultimo aspetto. La lettera alla moglie. Scrive. “Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore (…) Vorrei capire, coi i mei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto” (pag. 384).Questa è la lettera di un uomo che ha perso la sua identità e il rapporto col mondo? O invece la prova di una forte personalità pur nella temperie? La invitiamo a una sua valutazione storica.
Questa è una bellissima lettera d’amore. Se lei mi chiede di valutarla storicamente non posso che risponderle che sono sicuro che l’amore vale di più della storia.
(Ha collaborato Angelo Nardi)

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