Il Racconto: Albertina, una vita tra i malati psichiatrici

Quella di Albertina Scarsella, 62enne operatrice socio sanitaria nel reparto “Disabilità 1” dell’ospedale, è la storia di una vita dedicata agli altri. Ai più deboli. E non potrebbe che essere così, stando a sentire ciò che racconta riguardo i legami che si stringono con queste persone, che hanno fatto e fanno tutt’ora parte della sua quotidianità.

Persone a cui non rinuncerebbe mai, almeno fino alla pensione che raggiungerà tra un anno e mezzo. Mamma di due figlie, Mara e Monia, entrambe sposate, e nonna di quattro nipoti ai quali tiene tantissimo e che vede appena può, è divorziata da vent’anni, ma una fede al dito ce l’ha. E’ quella della mamma Eugenia, con cui viveva a L’Aquila da bambina insieme anche al papà Gianlorenzo, che era contadino.

albertinaInsieme a lei abbiamo ripercorso la storia di quella struttura riuscendo a rientrare, a distanza di anni, al suo interno. “Stando fuori – comincia a raccontare – non si riesce mai ad esser comprensivi con queste persone e con i loro stati d’animo. Io sono riuscita a comunicare con essi e questa è la più grande gioia di un lavoro che non vorrei lasciare mai”.

Come comincia il suo lavoro nell’ex ospedale psichiatrico?
Dopo aver lavorato dieci anni presso la Sit Siemens – una fabbrica a L’Aquila – e dopo altri quattro anni passati in un laboratorio analisi, mi sono trovata in cerca di un lavoro. Era un mondo completamente diverso e vedere tutti quei pazienti insieme e con quelle patologie mi fece un certo effetto. Quando sono arrivata lì erano 1.500.

Con gli anni poi il manicomio si è trasformato…
Sì, l’ospedale psichiatrico ha aperto intorno al 1955 e c’erano le suore. Poi nel ’78 con la legge Basaglia il manicomio è stato chiuso. Ma è rimasto il residuo manicomiale e cioè i pazienti che con gli anni sono stati poi inquadrati in varie patologie: oggi c’è il reparto per l’halzeimer, per la dialisi, per le cure palliative, mentre prima il paziente era sempre psichiatrico. Ce ne sono ancora tanti che vivono a “Martellona”. Della vecchia struttura, inoltre, è rimasto solo un padiglione.

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I pazienti che ricorda in particolare e perché?
Ricordo un ragazzo sulla trentina, venti anni fa, molto giovane che aveva perso i genitori ed era venuto spontaneamente. Non riusciva neppure a lavarsi il viso, ma era bellissimo e sembrava un attore. E’ stato pochissimo e se ne andò.
Poi c’è Angelo, un 65enne autistico originario de L’Aquila che sta sempre con me, non mi lascia mai. Ce l’ho nel cuore dall’inizio. Poi c’era Benedetto, un ciociaro di 29 anni, venuto a mancare. Ha sempre dato botte a tutti ma per me ha avuto un occhio di riguardo. Diceva “mo te tiro”. A me invece quando arrivavo al mattino diceva “Albé sì tu? me sì portato la crostatina?”. Sono persone sensibili e affettuose.

Che si faceva dentro “Martellona”?
Alcuni pazienti lavoravano. C’era una vaccheria, le uova fresche tutti i giorni e tantissimi animali, tra cui caprette, polli e maiali. C’era il teatro, una chiesa, una grande farmacia, il forno. C’era anche una vigna e si faceva il presepe vivente. Alcuni pazienti facevano i ricami che poi vendevano. Si organizzavano feste in maschera, si può dire che c’era un’attività continua. Poi le cose sono cambiate.

Ha mai pensato di andar via?
Quando andrò in pensione. Non ho mai voluto mollare. E’ un lavoro che mi piace, mi trovo bene in quel mondo e con questi pazienti, con cui riesco ad entrare in contatto. Mi faccio capire e loro mi rispettano. E’ il raggiungimento di un obiettivo.
C’è un rapporto di rispetto, occorre non far prendere il sopravvento al paziente, è una specie di famiglia. In alcuni momenti bisogna essere più incisivi, in altri serve una carezza.

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Ha mai assistito a interventi come elettrochoc?
Si, anche a delle autopsie. Un paio di volte, subito dopo che ha smesso di chiamarsi manicomio. Ho assistito anche al cosiddetto elettrochoc, che dava scosse elettriche sulle tempie che arrivavano al cervello. Mi ha fatto un brutto effetto. Anche se fosse curativo, vederlo non è bello. Le persone erano quasi sedate, si cercava in qualche modo di migliorare il loro futuro.

Le sue amiche come commentavano questo suo lavoro?
A volte mi dicevano “sei matta anche te”. All’epoca non c’era modo di curare queste persone come oggi in cui certe malattie oggi si notano fin dall’infanzia e si riesce ad intervenire in tempo con cure adeguate. Spesso era anche una questione di eredità ed alcuni venivano internati per non dividerla. Le storie sono tante.

La sua è una vita dedicata agli altri?
Ho sempre ricavato qualcosa di positivo stando insieme ai pazienti psichiatrici. Non ho mai ambito né voluto un lavoro in altri reparti, come la geriatria. Con loro riesco a comunicare, è una sorta di dono, quando alzo la voce loro mi ascoltano. Sanno fin dove possono arrivare con me.

Abbiamo parlato tanto del suo lavoro. Chi è Albertina nella vita di tutti i giorni?
Una persona che sembra molto fredda e autoritaria ma che in realtà è molto affettuosa. Sia con i pazienti che con i miei meravigliosi nipotini. Fuori dal lavoro, infatti, sono una nonna a tempo pieno, con la passione per il giardinaggio, l’uncinetto e la pittura. Ma soprattutto per la cucina, dove mi esprimo molto bene soprattutto nei primi piatti.

 

di Vittorio Moriconi

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