TIVOLI - Danni permanenti al neonato, risarcimento da 3 milioni di euro

Tre medici condannati, la Asl ritenuta co-responsabile per aver disincentivato l’uso di apparecchi diagnostici

Non si annunciava un parto a rischio e nessuno avrebbe mai pensato ad un epilogo tanto tragico. Ma mentre era in procinto di venire alla luce, il bimbo inalò nei polmoni materiale fecale sterile che gli causò un distress respiratorio e danni permanenti.

Per questo oggi due medici e un’ostetrica della Asl di Tivoli devono rimborsare all’Azienda sanitaria locale una cifra stratosferica pari a 2 milioni 168 mila 411 euro a fronte dei 3 milioni 97.731 euro e 23 centesimi che la Roma 5 ha già liquidato ai genitori del piccolo a titolo di risarcimento danni in conseguenza del comportamento gravemente colposo tenuto dai sanitari che hanno prestato assistenza alla mamma del piccolo.

Il caso di Malasanità emerge dalla sentenza numero 329 – CLICCA E LEGGI LA SENTENZA – depositata dalla Corte dei Conti lunedì 22 maggio che condanna i tre sanitari a versare all’Asl rispettivamente 1.239.092,492 il primo medico, 619.546,246 il secondo medico e 309.773,123 l’ostetrica, a titolo di “danno erariale indiretto”.

E’ stata la stessa Asl Roma 5 di Tivoli a segnalare alla Corte dei Conti il maxi-risarcimento liquidato nel 2021 per l’incidente sanitario avvenuto sedici anni fa.

Il calvario iniziò il 7 giugno 2007, quando la donna incinta su richiesta della sua ostetrica si recò al Pronto soccorso per alcuni accertamenti.

Sottoposta a visita ecografica, il medico non evidenziò segni di rischio per cui fu rimandata a casa e invitata a tornare l’indomani per il ricovero in ospedale.

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Così la mattina dell’8 giugno 2007 la donna tornò, il ginecologo la visitò, le somministrò dei farmaci per stimolare il parto e programmò il primo monitoraggio affidato al personale di turno in reparto.

Secondo la ricostruzione del medico legale che ha accertato la responsabilità dei tre sanitari condannati dalla Corte dei Conti, alle 11,30 la paziente fu visitata anche dall’ostetrica che non rilevò alcuna anomalia.

Alle ore 13 nuovo monitoraggio, ma dieci minuti dopo si verificò la rottura spontanea del sacco amniotico e la situazione precipitò.

Il tracciato rilevò una profonda decelerazione della frequenza cardiaca del feto per circa 2-3 minuti, non seguita da alcuna tachicardia compensativa.

Dalla sentenza della Corte dei Conti emerge che il dramma si consumò verso le 14, l’orario del cambio turno tra medici e sanitari. Nel frattempo il tracciato cardiaco mostrava ulteriori evidenti segni di sofferenza che proseguirono dalle 14,20 alle 14,50, un lasso di tempo in cui la donna fu sottoposta ad ulteriori accertamenti e le furono somministrati farmaci.

Fino a quando la partoriente venne ricoverata d’urgenza in terapia intensiva per la sofferenza del feto e per la sindrome da inalazione di meconio.

Dopo il parto, il 21 giugno 2007 gli esami clinici sul neonato rilevarono fin da subito i danni compatibili proprio con la inalazione nei polmoni di materiale fecale sterile nel liquido amniotico.

Sempre secondo il medico legale, i medici hanno perso tempo prezioso, non hanno individuato tempestivamente quanto stava accadendo nonostante i chiari segnali di sofferenza. E la mancata diagnosi del primo medico di turno avrebbe indotto i colleghi del turno successivo a non valutare attentamente i segnali di rischio per il neonato.

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Insomma, un caso di errate e intempestive cure, di violazione delle regole di prudenza e diligenza, previste nella scienza medica, di comportamenti gravemente negligenti, di incapacità di ricondurre a sintesi un quadro caratterizzato da sintomi chiari ed univoci e di agire tempestivamente per evitare le conseguenze dannose patite dal minore.

La Procura contabile aveva attribuito la responsabilità dei danni subiti dal bimbo esclusivamente ai sanitari e alla loro condotta “attendista”.

Di diversa opinione la Corte dei Conti.

Secondo i giudici, ha concorso al danno anche l’Azienda sanitaria.

In particolare la condotta “attendista” sarebbe stata condizionata anche dalle linee guida interne della Roma 5 finalizzate a disincentivare il ricorso ad apparecchiature sofisticate quale metodo diagnostico sicuro.

Insomma, la scelta di ritardare esami più specifici sul bimbo sarebbe riconducibile in parte alle decisioni organizzative e di politica sanitaria compiute dalla struttura, che suggerivano di praticarli soltanto in casi estremi, senza tenere in debito conto le ipotesi in cui emergessero dai tracciati e dalle ulteriori circostanze del singolo caso fattori che imponessero, invece, di privilegiarlo, come poi dimostrato dai consulenti d’ufficio, nel caso di specie.

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