GUIDONIA - Dal Teatro alla Letteratura, i mille volti di Mario Eleno

Intervista all’attore, regista e scrittore di Montecelio

Ha debuttato a 17 anni leggendo in scena i Canti di Leopardi. E’ maturato interpretando William Shakespeare e Franz Kafka, lavorando insieme a un mostro sacro come il regista Luca Ronconi al Piccolo Teatro Strehler di Milano, fino a diplomarsi alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano prima e alla Scuola di Mimo Corporeo di Napoli poi.

Mario Eleno (all’anagrafe Mario Fedeli) sul set della nuova serie Netflix “Inganno”

Mario Fedeli, 40 anni compiuti il 30 maggio, meglio noto col nome d’arte di “Mario Eleno”, è uno scrittore, attore, regista teatrale e traduttore originario di Montecelio, il borgo medievale del Comune di Guidonia dove è Direttore Artistico del Teatro Chisciotte.

Un primo piano di Mario Eleno

In realtà per esperti e appassionati di Teatro e di Letteratura quello dell’artista monticellese è un nome piuttosto noto.

Attualmente Mario Eleno collabora con le compagnie teatrali Phoebe Zeitgeist di Milano e Teatri Uniti di Napoli, la compagnia d’origine di Toni Servillo col quale condivide la sua stessa agenzia, la Agenzia Teatri.

L’attore originario di Montecelio calca il palcoscenico dall’età di 17 anni

In precedenza Mario Eleno ha tradotto e letto pubblicamente le composizioni poetiche di Blaise Cendrars, ha scritto e diretto per il Teatro Stabile di Innovazione Galleria Toledo di Napoli “Canto d’un poeta che se ne muore”, atto teatrale in versi nato dallo studio dell’opera di Carmelo Bene, ed è stato anche doppiatore, prestando la sua voce al documentario “Quando si ruppero gli argini” di Spike Lee.

Nella Letteratura il 40enne di Montecelio ha ottenuto vari riconoscimenti.

Mario Eleno scrittore ha ottenuto numerosi riconoscimenti

Dopo essere stato tra i finalisti del Premio Letterario Nazionale Charles Bukowski, aver partecipato al 44esimo Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano e al 52esimo Festival delle Nazioni di Città di Castello, nel 2020 il suo primo romanzo – “Tabaccheria” – viene premiato con il terzo posto al Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa Talenti Vesuviani, riceve una Menzione di Merito al Concorso Internazionale di Letteratura Milano Metropoli e al Premio Letterario Internazionale Michelangelo Buonarroti e arriva in finale al Premio Nabokov.

Sempre nel 2020 Mario Eleno è di nuovo tra i finalisti del Premio Letterario Nazionale Charles Bukowski, nel 2021 viene segnalato dalla Giuria del Concorso Letterario Nazionale sui Diritti Umani “Non è più il tempo di tacere”, è per la terza volta finalista al Premio Letterario Nazionale Charles Bukowski e vince il Premio Letterario De André con il racconto “Nella città di Genova”.

Nel 2023 ha pubblicato con Eretica Edizioni la silloge poetica “Verso le strade feroci”.

Attore, doppiatore, regista, scrittore: chi è Mario Eleno?

Chi sono non lo so ancora, cerco col gusto di cercare e non di trovare la mia identità, in variazione continua del mio essere, sicuramente «io è l’altro» e mai me medesimo, ma provo lo stesso a dare una risposta compiuta.

Diciamo che per il momento sono un artista, e un artista è colui che nella sua avventura crea vastità. Si tratta di una fase di transizione, è chiaro, non vorrò essere un artista per sempre, mi prefiggo di diventare un capolavoro.

Questa tuttavia è un’impresa che richiede il lavorio di una vita intera, anzi forse non mi basterà una singola vita per andare a segno, me ne serviranno altre, dovrò rinascere una seconda e una terza volta, così ci riuscirò, un fabbro di esistenze.

Come nasce l’attore Mario Eleno?

Molto tempo fa, avevo 17/18 anni, mi accorsi che le vicende personali della moltitudine umana, vegetale e animale della Terra potevano essere allegorizzate grazie alle operazioni sceniche, e allora scelsi il teatro. Ricordo che una ventina d’anni orsono mi capitò di leggere un’intervista di Marguerite Yourcenar che riportava una frase di Buddha, ero seduto sulle panchine della Villa di Adriano, a Tivoli, dove sono nato, mi trovavo lì apposta per immergermi nel materiale letterario di Marguerite, ad ogni modo la frase diceva così: «Per quanto innumerevoli siano i milioni di esseri erranti nell’immensità dei tremondi lavorerò per salvarli».

Mi scervellai per comprendere in che modo rendere concrete queste parole e alla fine non ebbi dubbi sulla soluzione: il computo della mia vita sarebbe stato il teatro. Riguardando al passato però vedo con trasparenza che se prima di queste scoperte non ci fossero stati i miei genitori non ci sarei arrivato tanto presto.

Avevo cinque anni quando mio padre mi mostrò con la sua Compagnia di guitti a Montecelio che c’era a disposizione degli uomini e delle donne questo strumento magico, potente e meravigliosochiamato teatro, ero leggermente più grande quando mia madre mi iniziò alla forza dionisiaca della danza, grazie alla sua Scuola.

Tutto ciò accadeva nella mia infanzia, che benedico. L’infanzia, quello spazio sconfinato da cui ognuno proviene.

Spesso le persone che mi conoscono appena mi chiedono di dove sono, la mia dizione non ha inflessioni dialettali e loro non riescono a dedurre le mie origini, allora rispondo: «Sono della mia infanzia, sono della mia infanzia come di un paese, è da lì che vengo».

Come sceglie i ruoli e le trame da interpretare?

Io non credo nei ruoli e nelle trame, mi muovo diversamente rispetto agli altri attori, credo piuttosto nelle voci.

Ti spiego.

Ci sono voci di dentro e voci di fuori: le voci di dentro sono la folla che mi abita, le voci di fuori sono gli innumerevoli doppi che vengono a bussare alle porte del mio corpo. In ambedue i casi ascolto le voci e do volume al loro spirito. Di conseguenza vengo parlato dal loro dire, il discorso non appartiene a me bensìa loro, non scelgo, sono scelto.

È la voce degli angeli o la voce dei fantasmi, “Engelsprache” la definiva Blümner, la lingua angelica e musicale, la magia del suono, ed è tangibile che non c’entrano ruoli e trame, non è teatro di prosa, non è intrattenimento, è la realtà poetica del vaniloquio, è lo spettacolo della phoné contro questo tempo malato divisività, è il canto disgraziato assoluto e puro di chi sta con un piede nell’arte e con l’altro nel manicomio, è qualcosa di misterioso e di vivo, arriva e frigge l’aria e mi commuove sempre.

I copioni a monte non mi piacciono, puzzano di morto, il teatro si fa nell’immediato, si va sulla pedana scenica e si compone senza l’intrusione del tarlo mentale. Ad ogni modo, se proprio dobbiamo parlare di ruoli e trame, non sceglierei mai Ciro Di Marzio della serie “Gomorra”, piuttosto Champion di “Heaven’s Gate” diretto da Michael Cimino, il floppato dalla società, oppure Hendrik Höfgen in “Mephisto” di IstvánSzabó, o ancora Auggie Wern, il tabaccaio di “Smoke”, da pelle d’oca, interpretato magistralmente dal mio insuperabile amico Harvey Keitel.

Recitare è inganno?

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Ecco la formula che sintetizza l’aspirazione del gioco attoriale: dico sempre la verità, anche quando mento. Le parole “recitare” e “recitazione” non sono giuste, le usiamo solo noi qui in Italia, sbagliamo. Gli inglesi dicono “play”, i francesi “jouer”.

Recitare vuol dire ripetere a memoria una cosa senza linfa vitale, falsificando le onde emozionali, e ciò toglie vivezza, imprevedibilità, sostanza all’atto teatrale. Il gioco attoriale ha bisogno, per verificarsi, di una serie infinita di attimi che non si possono replicare, perché unici e irripetibili. Il teatro che si replica non è teatro, quello sì che è inganno. Il teatro autentico naviga sul mare delle sensazioni, ad anima scoperchiata, gli attori si denudano e si danno agli spettatori con tutto il carico dei loro sentimenti, il teatro non ha bisogno di inganno ma di sincerità.

Lo spettacolo teatrale che più l’ha reso felice? E perché?

Sono sempre felice quando combatto sul ring della scena, sono felice perché la felicità secondo me consiste nella lotta per il raggiungimento di un obiettivo, e dal canto mio ogni volta che entro nello spazio e nel tempo stregato del teatro miro a obiettivi importanti.

Com’è che faceva l’imperativo categorico di Kant? “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

Tutti i miei spettacoli teatrali mi rendono felice perché sono scanditi da questo intento. Però voglio rammentare tre titoli, tre punti cruciali del mio percorso: “Sogno di Bottom (perché non ha fondo)”, il mio spettacolo della giovinezza; “Canto d’un poeta che se ne muore (a Carmelo Bene)”, il mio spettacolo della maturità; “Fiammeggianti Stelle – Leopardi e Scrjabin”, il primo passo verso il capolavoro.

Il personaggio interpretato che più l’ha reso orgoglioso del suo talento. E perché?

I personaggi sono la sedia a rotelle dei caratteristi e io non sono un caratterista, sono un poeta di scena, perciò la mia esplorazione non va in cerca di personaggi.

Dietro di me, sopra e sotto, di lato, in obliquo, c’è un mondo popolato da una miriade di creature incantevoli, ciò che mi rende orgoglioso è portare in scena quel mondo come una creazione, potenziarlo nel visibile.

Un’altra scelta di cui vado fiero è di non aver mai fatto una pubblicità, un programma televisivo, un talent show e di essermi continuamente sottratto all’orrendo concetto secondo il quale l’artista è un prodotto che deve essere consumato.

«Creo poesia, una merce inconsumabile», l’ha scritto Pasolini.

Davanti ad un flop come reagisce?

Mi fido più dei flop che dei trionfi, adoro i grandi insuccessi, guardo con sospetto i record di ascolti e di pubblico, per me sono segnali di pericolo, presumibilmente si avrà a che fare con opere scadenti.

Prima ho parlato di “Heaven’s Gate” di Michael Cimino, il gigantesco flop della storia del cinema. In realtà quel film è di una bellezza straordinaria, uscì nel 1983, e non è vero che fu un flop, fu floppato dalla società perché era una minaccia per il capitalismo americano, Cimino era un veggente, vide con anticipo spaventoso il casino che il neoliberismo sta combinando oggi, la violenza sulla collettività e sulle minoranze etniche, la soperchieria delle privatizzazioni.

Cimino fu floppato come Van Gogh fu suicidato dalla società, non si suicidò, artisti apocalittici, che svelano.

Che rapporto ha col successo?

Non me ne frega niente, dimentico subito i successi e continuo imperterrito, ostinato, eternamente contrario, a pretendere, a volere, a identificarmi col diverso, irriconoscibile.

Sono contento quando qualcuno mi guarda negli occhi e mi ringrazia per quello che faccio, sono contento se dopo aver letto una mia poesia d’amore due amanti se ne vanno di corsa s’un prato e si amano di più e più ferocemente fanno l’amore, sono contento quando certi picchiatelli si commuovono per strada, gli scappano le lacrime, perché sono l’unico che ha la pazienza di starli a sentire, provo a essere gentile, gli presto le mie orecchie e loro ci riversano i propri guai e le gioie, sono contento quando in certi casi fortunati la mia voce è in grado di far apparire paesaggi ineffabili e vedo la gente davanti a me viaggiare con gli occhi spalancati. Questi sono i successi a cui tengo.

Con la Cultura si mangia?

La qualità prima o poi emerge, e un artista, se è veramente bravo, è destinato a diventare un re. Il guaio è che nel frattempo, in un paese ignorante come l’Italia, è costretto a fare il mendicante.

Era la fine degli anni ’50 dello scorso secolo, mi sembra, o l’inizio dei ’60, quando Flaiano scriveva: «Fra trent’anni l’Italia sarà fatta dalla televisione e non dai Governi».

Flaiano era un alieno che veniva dal futuro e aveva visto bene.

La televisione ha instupidito l’Italia, ha diffuso ignoranza e sull’ignoranza ha eretto il suo regime totalitario. Gli artisti qui se la passano male, di frequente penso ai giovani pittori, agli scultori, poveracci, ma come fanno?

Molti mollano, non riescono a tirare avanti, a sbarcare il lunario, e allora un giorno li vedi fare i camerieri, un altro i magazzinieri, poi in fabbrica, poi i venditori di elettrodomestici, infine a pulire i cessi, dopodiché o sono tenaci e sopravvivono, o si ammazzano, mentre i comandanti dell’ignoranza pasteggiano sulle loro teste inermi.

Dalle istituzioni nazionali e locali arrivano briciole.

Anch’io, se fosse stato per loro, sarei morto di fame da un pezzo.

È proprio una tristezza.

Perché scrive romanzi?

Scrivo romanzi perché la vita è tutto un romanzo, tutto un movimento che viene, un divenire caotico ma oscuramente ordinato delle cose e delle persone. Non amo le scuole. Non mi piacciono i metodi.

Non seguo un metodo di lavoro.

Sento l’entropia. Tutto ciò che è vivente è fisiologica entropia.

E se scrivo è per bisogno, per igiene, come si mangia, come si respira, come si canta, o si spurga, per istinto o per spiritualità. Ma lo faccio anche per eccitarmi, eccitarmi a vivere. Sono un libertino della scrittura e ho scritto le mie opere più belle in città inzuppate di luce, in mezzo a un’orgia di milioni di persone.

Quando metto il punto finale, e rileggo attentamente le mie pagine, mi sembrano addirittura più belle della vita stessa. Pagine di sogno e sangue, righe di eros e righe di thanatos, righe di genesi, e anche l’immagine della caduta: una spirale di esperienze in cui mi lascio andare perché adoro il disordine, perché il Caos è una forza edificatrice che mi ragguaglia di tutto per filo e per segno come il Cosmo che ordina, la misura sta nella lotta fra queste due forze.

Come nasce lo scrittore Mario Eleno?

La mia scrittura si è fatta più prolifica e rilevante dopo la morte di mia madre, andata via da questo mondo con anticipo tremendo quattordici anni fa. La morte di mia madre è stato il crac, il trauma, la lesione profonda, lo spartiacque della mia vita, la ferita aperta.

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Ma ho affrontato la paura, mi sono tuffato fra le labbra aperte di quella piaga e ho trasformato il dolore in possanza creatrice.

È una contraddizione, sembra assurdo dirlo, ma senza la morte di mia madre sarei rimasto un mediocre attore uguale a tanti altri. La sua sofferenza mi ha tramutato in scrittore, poeta, artista.

In “Amore e Morte” Leopardi scrive «Tanto alla morte inclina D’amor la disciplina», beh potrei capovolgere questa intuizione geniale del poeta e dire che nel mio caso l’insegnamento della morte mi ha inclinato all’amore.

La scomparsa di mia madre ha fatto sgorgare dal mio petto, come acqua dissetante da una fonte di pietra, un amore cosmico nei confronti del creato. Avevo l’urgenza di comunicare questo accadimento miracoloso e ho scelto la scrittura per farlo.

Comunque nella mia storia personale non vivo nell’anno 2023 dopo Cristo ma nell’anno 14 dopo Elena, mia madre, la sua dipartita è il mio anno 0.

Mi sono forgiato un nome nuovo per portarmela sempre appresso, Eleno come Elena.

Col primo romanzo, “Tabaccheria”, ha ottenuto numerose menzioni, di cosa parla? Cosa si può dire del mio romanzo?

Che viene fuori dalla mia esperienza lavorativa come impiegato di una tabaccheria a Napoli. Avevo bisogno di un lavoro che mi desse un pò di soldi, non c’era niente di peggio in giro e mi cestinai lì, in un panorama senza sbocco, marcio e routinario e fatto soltanto di numeri scheletrici, doveri e orari da rispettare, fiutando la sensazione dell’incombente disastro.

Fu un disastro. Una grande tristezza.

Mi sentivo appiccicato nel fondo vischioso di un bidone come una stupida blatta che raschiava i rimasugli per campare. Davo di gomito nelle tenebre e le ore non finivano mai. Lancette come pietre che mi linciavano. Cunei di noia che spillonavano la mia testa fino a farmi diventare la bambolina vudù del taedium vitae. Lavoro come cicuta, veleno come tutti i lavori. Intossicazione da lavoro. Occupazione micidiale per ogni essere umano.

Tuttavia in quella bettola che puzzava – poiché ci passava la vita con il suo puzzo pungente – incontrai tipi davvero stravaganti con delle cose da dire. E non feci lo schizzinoso.

A un certo punto aspirai tutto quel puzzo e così cominciai a scrivere e nacque il romanzo. La tabaccheria stava in mezzo a una strada e non era per niente bella, a guardarla sembrava una donna in travaglio che dava alla luce soltanto aborti.

Forse per questo m’ispirò.

Con il racconto, “Nella città di Genova”, ha vinto il Premio Letterario De André.

C’è differenza tra solitudine e isolamento?

Archiviata la pandemia, quanto queste due condizioni sono proprie dell’uomo moderno?

Sì, ho vinto il Premio De André nel 2020, anno della pandemia. Il tema del Concorso Letterario era “la solitudine”. In quei mesi ci siamo di colpo ritrovati soli e isolati a causa di un evento globale e improvviso che non conoscevamo, che ci ha colto di sorpresa e ci ha procurato svariate angosce.

Gli organizzatori del Premio hanno pensato – e li ringrazio per questo – di affrontare la tematica.

Tuttavia c’è una differenza sostanziale fra solitudine e isolamento e dal racconto “Nella città di Genova” essa emerge.

La solitudine non è una condizione annichilente per l’essere umano, come diceva lo stesso De André: «Non ho mai avuto paura di incontrare un uomo solo sulla strada. Vedere invece uomini che si organizzavano in gruppi mi provocava sempre un certo turbamento». Nella solitudine possono avvenire sconvolgenti e bellissime rivelazioni, ma senz’altro dopo bisogna uscirne ed è essenziale condividere le scoperte con l’altro, altrimenti la solitudine non sarà servita a niente.

Un’altra natura ha l’isolamento, perché esso è una restrizione imposta dal Potere all’individuo da cui non si fugge, uno stato che annienta, una prigione, un campo di detenzione per l’anima, dalla cella dell’isolamento non scaturisce mai nulla di buono.

Questi I-phone, Smartphone, Social Network, tecnologie moderne che noi usiamo credendo di allacciare una comunicazione migliore con il mondo, in verità stanno gettando con protervia la specie umana nell’isolamento più totale.

Cammino lungo il corso di una città, una città qualsiasi, e osservo sgomento le persone deambulare con le cervicali piegate sui cellulari, si isolano quando invece potrebbero alzare la testa, guardare negli occhi l’altro e lasciare entrare la sua bellezza. Siamo convinti di usare questi mezzi di in-comunicazione, o in-comunicabilità di massa a nostro favore ma la realtà è ben diversa, pensiamo di acquistarli, invece siamo noi a essere acquistati.

Da chi?

Dal Potere Economico, è lampante. Potere Economico che decide carestie, olocausti sotto il mare, traffico di esseri umani, genocidi, accaparra terre, insabbia il problema dei cambiamenti climatici ed estende i suoi domini con i soldi che noi gli elargiamo.

La pandemia? Sarà stata pure archiviata ma lo stato di allerta no. Uno dei migliori filosofi moderni, Giorgio Agamben, spiega come ormai viga nel mondo lo stato di eccezione costante, si passa da un’emergenza all’altra per tenere sotto controllo l’essere umano, è una strategia del Potere portata avanti alla luce del Sole.

Ha intitolato la sua ultima raccolta di poesie “Verso le strade feroci”: fuori dal palcoscenico e dal set il mondo reale è così cattivo com’è dipinto dalla tv o è pure peggiore?

La tv non sa niente del mondo reale, la tv decora la cattiveria che c’è là fuori e ne fa un découpage o un passatempo per la casalinga che sta davanti ai fornelli o per il borgheseche sorseggia il suo caffè sul divano.

La tv non bazzica veramente il territorio del male, stain cattedra e giudica, i palinsesti televisivi sono il ballo mascherato dell’ipocrisia, qualchevoce fuori dal coro ma troppo poche. Ora sono morti anche Andrea Purgatori e Michela Murgia, gravi perdite.

La tv ha bisogno del “cattivo”, gli serve, così la manica di perbenisti può puntare il dito e dire «quello è un uomo cattivo», così dopo si sentono “buoni e giusti”, ma loro non sono buoni, sanno solo nascondersi, solo dire bugie, e alla fine della giornata televisiva buonanotte al “cattivo” e sogni d’oro.

Per conoscere la cattiveria e la santità del mondo reale bisogna leggere Dostoevskij, Malaparte, Céline, Cendrars, Fenoglio, Bianciardi, Miller, Bukowski, Baldwin, Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Virginia Woolf, Simone Weil, Toni Morrison, il Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud o se volete il mio libro di poesie, “Verso le strade feroci” edito da Eretica, piccolo e audace editore di Buccino, in provincia di Salerno.

Andate su quelle strade, poi venite a dirmelo.

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