Riforma fiscale come il teschio di Amleto

“Essere o non essere” nei dubbi amletici di Draghi la soluzione che distribuisce a tutti ma scontenta tutti

Il tema del fisco oramai consiste nell’unico vero discrimine ideologico tra destra e sinistra. Questo avviene da quando sono franate le grandi matrici del progresso contro la conservazione, piuttosto che la restaurazione di un ordine, che hanno caratterizzato l’ideal-tipo ideologico del secondo dopoguerra.

Ma relegando queste disquisizioni nella soffitta della memoria, il tema di come addivenire al prelievo fiscale consiste nella vera grande disputa che divide il paese.

La questione che rimbalza da anni consiste nella riforma dell’Irpef. L’annuncio della sua riforma ha creato i veri solchi. Da una parte chi vuole ridurre le aliquote e la pressione fiscale, dall’altra chi pensa a distribuire la somma annunciata degli otto miliardi collocandola per alleggerire l’imposta sul reddito delle persone fisiche.

Ma prendendo a campione il 2019 che è stato l’ultimo anno senza Covid in cui l’economia ha avuto un suo corso normale, o almeno non tempestato dalla crisi endemica, l’Italia conta su un gettito Irpef di 192 miliardi. Si litiga quindi per una frazione minima della ricchezza prodotta. Il quattro per cento! Come al solito Draghi dispensa a tutti un po’ di quanto si aspettano lasciando tutti insoddisfatti ma non arrabbiati perché qualcosa lo hanno ottenuto. Quelli che volevano la flat tax si vedono eliminare una quota. Quegli altri che vogliono distribuire la ricchezza danno un pannicello caldo ai redditi medi. Sono soluzioni che confidano nei numeri espressi in questo anno ma basandosi sull’andamento di crescita del 2021 debbono tutto al debito.

Ciascuna di queste categorie fa esplodere una miriade di controversie che dividono inutilmente l’elettorato perché non si tocca il tema centrale che da anni è stato individuato ma mai affrontato: il fatto che in questo paese costa troppo la macchina dello Stato. La spesa pubblica assorbe tante, troppe energie.

Dal governo tecnico di Draghi ci si aspettava di più, ma è arrivato questo. Ma l’errore è stato, dall’inizio, aver imposto una rappresentanza politica da mitigare con i tecnici chiamati per la fase di emergenza.

Qui non si intende fare l’apologia dei professori rispetto i politici di professione.

In contesti recenti questa scelta ha prodotto risultati molto deludenti. Semplicemente si intende dire che l’occasione della crisi era opportuna per agire in modo chirurgico, senza pre-giudizi dettati da giudizi ideologici, su quelli che sono i bastoni in mezzo alle ruote affinché siano eliminati. Ma si fa una cosa peggiore. Non si dice che il problema non esiste. Questa sarebbe una finzione politicistica. Si rimanda alla prossima legislatura. Si vede proprio che Draghi vuole fare il presidente o almeno, in questa esperienza da premier non vuole imbrattarsi la camicia di sudore.

La terza considerazione è che, però, la riforma ignora completamente l’elefante nella stanza: la spesa pubblica. La rinuncia a mettere ordine nella spesa rappresenta la scelta più critica dell’attuale governo, il quale ne affida la revisione alla prossima legislatura e, nella nota di aggiornamento al Def, si limita ad accendere un cero agli dei della crescita. Insomma: sebbene formalmente la copertura arrivi dalla buona performance economica del 2021, nei fatti essa attinge al debito. E si tratta di una scelta tanto più pericolosa quanto più prendiamo sul serio l’ondata inflattiva che si sta abbattendo su di noi.

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