Ponte di Nona – Espulsi dal centro d’accoglienza dopo le rivolte, parlano i rifugiati

L’intervento della polizia il 12 febbraio

Le tensioni si sono registrate già nel pomeriggio, di conseguenza la sera del 12 febbraio sono intervenuti gli agenti del Commissariato Nuovo Casilino, portando via con se 13 ragazzi che avevano animato le proteste a causa della mancata erogazione del pocket money che dovrebbero ricevere di diritto ogni mese. Un ritardo di 20 giorni che, come raccontano alcuni ragazzi del centro, ha provocato una sorta di occupazione lo scorso gennaio, sbarrando le porte d’accesso al centro agli operatori e alla polizia dalle 6 del mattino alle 16 del pomeriggio.

 

Non tutti gli ospiti erano d’accordo

“Sappiamo tutti quello che è successo con ‘Mafia Capitale’ e le difficoltà che sta affrontando la cooperativa, ma credo che le proteste vanno fatte in altro modo”. A parlare è Bamba Mahamadou Traore, ragazzo di 25 anni originario del Mali, in Italia da febbraio 2014 e ospite del centro Namastè. Uno di quelli che ha sempre preso parte alle giornate di pulizia e decoro del quartiere organizzato dai comitati. “Il problema è che non si fidano e pensano che gli operatori vogliano fregarci – continua Bamba -, tra gli espulsi c’è anche mio cugino di primo grado e sono dispiaciuto, ma erano stati avvisati più volte sui comportamenti da seguire, ma anche che i ritardi del pocket money non erano dipesi dalla cooperativa”.

 

“Violazione grave e reiterata delle regole di comportamento”

Questa l’indicazione del porvedimento di epsulsione in mano agli agenti. Regole che spesso non venivano condivise, dall’orario di entrata e uscita, ai pasti, all’orario imposto in cui andare a coricarsi e spegnere le luci. Alcune possono apparire superficiali, ma sommate alle “rivolte” sono bastate per far redigere al coordinatore del centro Namastè di Ponte di Nona, Claude Alin Nguindtel, una relazione alla Prefettura in cui si chiedeva la “sospensione all’accoglienza”. Così già nel pomeriggio del 12 febbraio, i tredici ragazzi hanno manifestato la loro contrarietà a lasciare il centro barricandosi nelle loro stanze, per poi reagire contro la Polizia. In manette per sei di loro. Una decisione ritenuta “eccessiva ed inusuale” da Usb.

 

Ora senza un posto dove andare

Ma cosa è successo agli altri sette? Completamente abbandonati al loro destino. Aiutati da alcuni coordinatori del sindacato Usb che, attraverso una conferenza stampa venerdì 13 febbraio, hanno precisato “quanto le loro proteste fossero del tutto legittime, subendo una ritorsione disumana da parte della cooperativa”. E in tutta questa faccenda la cosa chiara è che chi entra in un programma di protezione internazionale, come nel loro caso, resta una responsabilità pubblica, e non dovrebbero essere lasciati in mezzo ad una strada. “Siamo riusciti a sistemarli la prima notte in una struttura adibita all’emergenza freddo – racconta Valentina Greco dell’Usb -, finché non verranno reinseriti nel circuito d’accoglienza siamo riusciti a trovare sistemazione nei locali della chiesa di San Gabriele, nel VII municipio, ma nessuno si sta preoccupando per loro”.

 

Il sistema fallimentare dell’accoglienza

Da un lato un provvedimento severo della cooperativa. Dall’altro una reazione di protesta ritenuta eccessivamente animata anche dagli altri 70 ragazzi che vivono nel centro e che prendono le distanze ricordando “quanto si tratta di un ristretto gruppo di persone”. In mezzo, un sistema inefficiente come quello dell’accoglienza, illustrato anche dall’inchiesta Mafia Capitale. Dove le procedure burocratiche per il riconoscimento del permesso umanitario si allungano, lasciando questi ragazzi, arrivati da lontano e con lunghi viaggi della speranza, in un limbo senza fine. Per poi lasciarli fuori dall’unica “realtà” che conoscono.

 

Veronica Altimari

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