Fu improvvido aderire. Era doveroso uscirne. Poteva farlo solo un governo che non ha impacci diplomatici con la seconda potenza economica mondiale. (Seconda solo in termini di elencazione numerica, non in termini di graduatori o gerarchia). L’unica giustificazione possibile che teneva in piedi un dietro-front di questo tipo era il mancato riscontro economico. Come una vecchia logica mercantile vuole: “il gioco non vale la candela”, quindi: “io esco dal gioco”. Chiaramente si trattava di patti bilaterali di una complessità e di un impegno tale che non potevano pretendere una convenienza immediata e monetizzabile.
Il problema di quando il governo di Giuseppe Conte sottoscrisse questi stessi accordi era quello che ci legavano mani e piedi alla Cina e che il rapporto di forze tra i due paesi erano evidentemente sbilanciati. Logica avrebbe voluto che fosse l’Unione Europea a stabilire un grande accordo centralmente, nel quale le varie entità territoriali avrebbero esercitato un ruolo.
Così facendo, invece, il pericolo di un rapporto così forte con la Cina era quello di legarsi mani e piedi al regime e a una potenza economica incommensurabile con un paese come il nostro fortemente esposto. I cinesi erano interessati ai nostri porti e, comunque, alle vie di accesso al cuore d’Europa. Questo per motivi commerciali, quindi di penetrazione ancora più forte nei nostri mercati. La qual cosa probabilmente sarebbe rimasta poco gradita ai partner europei che nelle segrete stanze avranno mostrato risentimento alla mossa da primi della classe degli italiani.
E questi sono gli effetti. Indipendentemente dall’errore che fu entrare in un patto dove il contraente è molto più grande di noi, quando ‘mamma Europa’ chiama picciotto risponde. E così l’Italia, giustamente, se ne va. Sconosciuti gli esiti di questo chiamarsi fuori. Non si esce da un accordo estemporaneamente, così come da una festa perché ci si è annoiati. Sicuramente la via dell’uscita dall’accordo era in preparazione da tempo.