GUIDONIA – Romano, l’informatico da 100 e Lode con la passione per musica e scacchi

Speciale Eccellenze Scolastiche - Il 19enne neo diplomato all'Istituto tecnico Volta sogna di applicare la tecnologia alla cura della disabilità

Romano Lunedi, 19 anni, di Guidonia, figlio di Maria Elena, social media manager e marketer, copywriter e content creator, e di Carlo, autista di mezzi pesanti, è uno degli studenti che quest’anno ha raggiunto la lode.

Il suo percorso, concluso presso l’Istituto Tecnico Tecnologico Statale Alessandro Volta di Guidonia, classe 5°C, è una profezia che si avvera: dopo un eccellente anno scolastico, lo studente ha visto riconosciuti i suoi sforzi e la sua passione per lo studio superando l’Esame di Maturità con 100 e Lode.

Ma Romano è molto più di un voto, per quanto eccellente esso sia: non rinuncia alla palestra, alle uscite con gli amici, si divide tra vari interessi come la musica, da autodidatta, e lascia sempre aperta la porta della curiosità, nel caso un nuovo interesse venga a bussare, come gli scacchi.

Per il futuro, sembra avere le idee chiare: conciliare lo sviluppo tecnologico al benessere che l’uomo può ricavarne.

Per ottenere risultati simili, quante ore dedichi allo studio?

Per ottenere determinati risultati, una parte, spesso ingente, della mia quotidianità è dedicata allo studio e/o al ripasso delle materie scolastiche.

Questo lasso di tempo ricade principalmente nel tardo pomeriggio, dopo scuola, ma non nascondo a nessuno che a volte mi sono trovato a fare anche tardi la notte al fine di puntare a un esito migliore. Dipende dal livello a cui voglio portare il risultato del mio lavoro.

Come riesci a conciliare studio e vita sociale?

Lo studio, per me, è importante quanto una propria vita sociale: conoscendo e istruendosi, si è membri sempre più consapevoli e autorevoli all’interno della società di cui si desidera far parte.

Nello specifico: la settimana lavorativa, dal lunedì al venerdì, mi vede dedicarmi all’attività fisica 3 volte a settimana, alternando i giorni di allenamento a quelli di riposo, al fine di ottimizzare i risultati del lavoro svolto in palestra.

Il sabato è un giorno che spesso, per i miei ritmi, assume un carattere più “funzionale”, poiché se c’è da dare una mano in famiglia mi adopero, altrimenti mi dedico allo studio qualora dovessi necessitare di maggiore dedizione alla scuola, oppure esco tranquillamente con gli amici se il pomeriggio dovesse presentarsi libero da impegni imminenti.

La domenica tendo sempre a dedicarla completamente a scopi ricreativi, poiché, come per quanto riguarda il corpo, anche la mente ha bisogno di riposo per performare al meglio. Tolti impegni, imprevisti, ore di sonno e famiglia, sono solito reputare utile allo studio tutto il tempo residuo.

Quali sono i tuoi hobby e interessi?

Oltre allo studio in materia d’informatica e la palestra, a mio parere fondamentale per mantenere il corpo come lo studio fa con la mente, sin da quando sono piccolo nutro una passione per la musica: da autodidatta, mi cimento a suonare principalmente la tastiera o il pianoforte.

In tempi recenti sembra però sia nata in me una sorta di curiosa passione per i giochi da tavolo, a partire dagli scacchi: m’incuriosisce il meccanismo d’intrattenimento “primitivo”, rispetto alle tecnologie e i dispositivi moderni, che determinati giochi o passatempi possono provocare in un singolo individuo o in un gruppo di tali, nonostante appunto si tratti di mezzi ritenuti oggi “obsoleti” nel riuscire a passare il tempo.

Hai scelto l’università? Se sì, quale facoltà? Se no, cosa farai dopo?

La mia scelta ricadrà sicuramente nel proseguire gli studi nel campo dell’informatica.

Attualmente, sto consultando le università della zona: La Sapienza, Roma Tre e Tor Vergata.

Molti professori mi hanno comunque consigliato di valutare l’Università di Pisa, ritenuta come riferimento per quanto riguarda gli studi di mio interesse. Devo dunque conciliare desideri e possibilità, ma sicuramente la scelta ricadrà su una facoltà tra Ingegneria Informatica e Scienze Informatiche.

Cosa sogni di fare da grande?

Riguardo al futuro, un mio intimo desiderio, maturato crescendo, è quello di assistere, o meglio ancora partecipare se possibile, quantomeno all’avvio del processo tecnologico che possa curare disabilità, oltreché fisiche, soprattutto sensoriali e mentali.

Ritengo che se la tecnologia abbia uno scopo principe, allora questo è migliorare la vita dell’essere umano: “essere umano” è chiunque, senza alcuna distinzione.

Come c’è chi desidera acqua fresca e pulita, c’è chi desidera soltanto dell’acqua, chi desidera poter tenere in mano un bicchiere d’acqua e chi, di quell’acqua, vorrebbe proprio riuscire a percepirne il dolce suono o la purezza visiva.

C’è chi poi vorrebbe sicuramente sapere cosa accada quando percepisce che quel bisogno primordiale, la sete, viene soddisfatto. Nulla è da dare per scontato.

Vorresti rimanere in Italia o andare all’estero?

L’Italia è una realtà che ancora sento di dover vivere appieno, ma non disdegnerei assolutamente una qualche permanenza in giro per l’Europa o nel mondo: ci sono posti che non possono essere vissuti attraverso testimonianze, foto o video indiretti.

Entrare a contatto con nuove realtà non solo permette di ampliare la propria mente, ma consente anche di essere un cittadino del mondo più consapevole e spesso anche responsabile.

Nuove culture, nuove società, nuovi usi e costumi: la tradizione locale e nazionale, nei limiti del rispetto della persona e dell’ambiente (flora e fauna compresi), è da preservare per mantenere viva quella bellezza propria di vivere ogni volta un mondo nuovo, nonostante si viaggi sempre intorno allo stesso mappamondo.

Secondo te il merito è premiato in Italia?

Ritengo che, senza dubbio, in Italia il merito sia premiato: si può discutere se in modo opportunamente appropriato o meno, ma sicuramente risulta difficile non assegnare onorificenze alle menti brillanti che fanno spiccare la propria nazione sui tavoli che muovono il mondo di domani.

Se c’è dunque un ambito che può essere messo sotto analisi è la capacità di riconoscere questo merito. Per esempio, soprattutto nelle piccole realtà urbane, molti prodigi intellettuali si trovano a limitare la propria sete di sapere perché costretti a sottostare a condizioni economiche sfavorevoli e/o a quell’ignoranza di fondo che purtroppo non sa indirizzare propriamente il potenziale di cui si dispone, da parte dell’individuo stesso, e/o che si ha davanti, da parte di chi lo circonda.

Non dispongo delle conoscenze e delle capacità per decretare una vittima e un colpevole ben delineati in questa situazione: la mia è da prendere perlopiù come la denuncia di un’ingiustizia che, a mio parere, colpisce il futuro nazionale alle radici.

Un tempo gli studenti con una media alta venivano chiamati “secchioni” e oggi “nerd”. Sei mai stato chiamato così? Ti senti un secchione? Quale valenza dai al termine?

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Fortunatamente si sta estinguendo l’usanza di chiamare “secchione” o “nerd” quella persona che nutre semplicemente una passione innata per un ambito che non ha riscontro immediato nella maggior parte delle quotidianità della comunità.

Ho vissuto delle realtà scolastiche dove non mi sono mai state attribuite etichette di alcun tipo in base alle mie prestazioni didattiche, anzi.

Non mi ritengo nessuno in più di chi, magari, semplicemente non nutre una passione, come la mia, per lo studio di una materia: non siamo tutti uguali, ma ritengo che tutti debbano essere rispettati.

Una mente brillante principalmente nel campo intellettuale/teorico (dettata perlopiù dallo studio) gode di uno status privilegiato come una mente brillante principalmente nel campo pratico (dettata perlopiù dall’esperienza), e questo vale per qualsiasi ambito. Faccio un esempio, per essere chiaro: se un prodotto ordinato online arriva con precisione e cura, è merito di tutti, dall’azienda a capo, senza dubbio, fino al team di magazzinieri che ha smistato il pacco, rispettando anche quelle piccolezze, ma che fanno la differenza, relative alla sua integrità.

Bisogna, essenzialmente, rispettare tutti: ognuno ha una propria dignità e una propria intelligenza, che magari non sono propriamente valorizzate all’interno della maggioranza delle realtà scolastiche a causa di una standardizzazione più o meno necessaria.

Quanto è importante studiare?

Studiare, a mio avviso, rende liberi. Sapere è meglio di non sapere, in ogni campo. Studiare significa essere padroni della propria vita, e non per forza parlando di un qualsiasi ambito professionalmente riconosciuto: “studiare” significa “sapere”, e sapere aiuta a evitare errori o, al più, a rimediare adeguatamente.

Se dovesse sembrar poco, per testimoniare il valore unico proprio della conoscenza, basta riflettere sul fatto che il sapere si fa pagare: consulenze, servizi, insegnamenti privati dedicati/specifici… non può essere un caso.

Studiare, e quindi sapere, è importante per mantenersi vivi, liberi e umili nei confronti della complessità che è la vita che si vive ogni giorno, ogni secondo, in una realtà dove non tutto dipende dalle proprie azioni.

Sarò forse di parte, ora, nel dire quello che sto per dire, ma ritengo che reputare saziata la propria sete di sapere è pari ad assumere una posizione di arrogante presunzione, purtroppo dettata quasi sempre da un’involontaria ignoranza, nei confronti delle opportunità che lo studio offre, anche nella vita di tutti i giorni.

Sei sui social? Se sì, quanto tempo li usi?

Sì, sono anche su alcuni social.

Su quelli che ritengo utili, per essere precisi. Tuttavia, col passare degli anni e soprattutto col complicarsi del percorso di studi in vista della maturità, ho man mano smesso di usare praticamente tutti i social network.

Le motivazioni vanno da una logistica impossibilità di tempo, dovuta allo studio e a una vita sociale reale (ritengo abbia un valore ineguagliabile, a confronto), al mercato aziendale di queste piattaforme: l’accessibilità immediata di una fornitura-lampo di contenuti dalla breve durata, appositamente alimentata da algoritmi di profilazione in costante evoluzione anche grazie all’AI, sta palesemente danneggiando le nuove generazioni.

Non mi dilungherò oltre, ma tengo particolarmente a denunciare la tossica pericolosità che giace intrinseca nei minuti che passano inconsapevolmente quando si “scrollano” contenuti sempre più brevi e sempre più mediamente scadenti, senza ormai pensare più di tanto a cosa si stia facendo/sentendo/vedendo.

Denuncio questa situazione perché un mercato si muove se vengono soddisfatti dei bisogni, dunque non si può dar colpa più di tanto a degli ecosistemi aziendali che dovranno pur battere la concorrenza per mantenere un’autorità nel settore.

Ti sentivi abbastanza preparato per questo esame finale? Avevi ansia o eri tranquillo?

Confesso che non mi sono sentito completamente e pienamente preparato finché non sono andato a leggere il punteggio finale appeso ai quadri delle commissioni d’esame.

Ma d’altronde è stata questa l’autoanalisi con cui ho affrontato la maggior parte delle verifiche scritte/orali che ho affrontato nel mio percorso scolastico fino a oggi.

Con gli anni, ho notato che questa umile considerazione di me, che ho nei confronti della più minima verifica delle mie competenze, mi aiuta: l’ansia, quando è sana, mi tiene attento, pronto ad imparare cose nuove e sempre predisposto a riconoscere quegli errori che rallentano l’aumentare delle mie conoscenze o addirittura il miglioramento del mio metodo di studio.

Sì, è quell’ansia che caratterizza lo studente appassionato, che porta ad illudersi che un numero intero, al più decimale, possa far apprezzare con globale completezza una qualsiasi prestazione in qualsiasi ambito.

La realtà però non è questa. Io so chi sono e come/quanto/perché studio: lo faccio prima di tutto per una realizzazione personale, e poi, magari, per quei risultati standardizzati al fine di essere consultabili comprensibilmente anche al di fuori di me. Però quell’ansia aiuta a non abbassare mai la guardia, ecco.

Il tuo percorso di studi ti ha preparato a questo esame finale oppure avresti preferito che fosse diverso? Se sì, come?

Se si parla del percorso di studi strettamente riguardante ciò che è stato offerto dalla scuola, ci sono delle precisazioni da fare: in minima parte l’anno scorso, ma soprattutto l’anno presente, sono stati anni spigolosi per la gestione delle docenze d’indirizzo all’interno dell’istituto.

L’esito finale è l’acquisizione di complessità da parte del percorso di studi, dove le curve d’apprendimento diventano più ripide a causa di un’inevitabile “corsa ai programmi”: si cerca comunque di fornire le competenze minime necessarie ad affrontare l’anno seguente, o l’Esame di Stato, senza ritrovarsi con troppe lacune con cui fare i conti.

In questo senso, devo ringraziare infinitamente i docenti che hanno scelto di dedicarsi con cura e disciplina alla loro professione, più di quanto dovuto, per non far mancare nulla alla mia classe e a quelle che versavano nella stessa situazione.

L’esito finale dei miei Esame di Stato è la constatazione di una vittoria senz’altro personale, ma riguardante me come chi mi ha sostenuto in questa sfida e ha creduto nel mio potenziale.

Come è andato questo esame e quale traccia hai scelto?

L’esame è andato come me lo aspettavo: complesso come può essere l’ultimo esame obbligatorio della propria vita, ma memorabile proprio in quanto tale. L’emozione iniziale ha poi lasciato spazio alla consueta e ferrea concentrazione con cui cerco di affrontare ogni sfida che mi trovo ad affrontare, anche al di fuori della scuola.

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Il mio obiettivo è non avere rimorsi: se deve andare male allora andrà male e non ci si può fare molto, ma fino a questo eventuale esito è importante dare comunque e sempre il massimo.

Per lo svolgimento della prima prova scritta ho scelto la traccia A2, su Pirandello: parlando del rischio che corre l’uomo di soccombere alla tecnologia, chiamata “la Macchina” nel testo, mi sono potuto dedicare al trattamento delle nuove tecnologie nei tempi odierni, con costanti paragoni, affrontando anche l’argomento dell’intelligenza artificiale.

Cosa pensi della modalità d’esame?

Credo di poter parlare di questo tema proprio in quanto vittima di un disagio organizzativo che, seppur non dipeso dai singoli istituti, è riscontrato con frequenza in varie realtà scolastiche.

A mio avviso il problema delle docenze, in Italia, è sempre più allarmante man mano che si cercano figure specializzate in materie d’indirizzo.

L’Esame di Stato andrebbe dunque modificato, secondo me, adeguando le competenze richieste ai singoli istituti, in base ai programmi che sono stati affrontati quantomeno nelle materie d’indirizzo in vista, dunque, della seconda prova scritta.

Questo finché la situazione non tornerà alla stabilità che ha portato, a suo tempo, all’adozione del sistema corrente: quella attuale è una realtà differente, che può, lecitamente, necessitare di adattamenti adeguati ma che comunque non vadano a ledere l’autorità e la credibilità dell’Esame di Stato.

Cosa ti rimane di più di questi ultimi 5 anni? C’è un episodio o un professore che ricorderai? Perché?

Se c’è una cosa che dico sempre di aver imparato da questi 5 anni, ma, in generale, dal mio intero percorso scolastico, è il modo giusto di crescere e di affrontare la vita: ho vissuto, con sempre più consapevolezza, realtà e persone (amicizie e docenti, con relativi insegnamenti) comunque, di volta in volta, sempre diverse.

Senza trascurare poi il fatto che, nel bel mezzo di questo viaggio unico, è capitato l’avvento della didattica a distanza a causa della pandemia “CoViD-19”. Questo ha modificato non solo il mio mondo interno, con le mie certezze e le mie insicurezze, ma anche, forse soprattutto, il modo in cui percepisco il mondo intorno a me.

Ho contemporaneamente imparato, per esempio, a mantenere dinamiche quelle certezze più soggette alle influenze del contesto in cui m’inserisco, ma anche a guardare le persone consapevole che si sta assistendo soltanto allo spettacolo che queste ha scelto di presentarci, uno dei tanti che si possono tenere in serbo dietro le quinte.

A questo fine porterò sempre con me ricordi speciali, unici nel bene e nel male, sempre validi come base certa per argomentare contro i dubbi sulla mia identità o le mie capacità, quesiti soliti nei momenti di difficoltà.

Da amici e compagni, sempre disponibili, a modo loro, per polemizzare e festeggiare insieme di ogni delusione e ogni risultato, a professori degni di essere chiamati tali, capaci di stimolare la sete di conoscenza negli alunni e disposti anche a sacrificarsi per la formazione dei cittadini di domani.

Puntavi al massimo dei voti? Te lo aspettavi?

Il mio metodo è puntare sempre in alto, principalmente a un obiettivo inarrivabile: un qualsiasi altro traguardo, posto magari addirittura nella comfort zone, rischia di limitare la prestazione e dunque i risultati.

Seppur non si dovesse riuscire a concludere l’obiettivo, si è comunque giunti a un livello difficilmente predeterminabile: questo è l’unico modo per dare davvero il massimo, fino all’ultimo, perché si sta mirando a qualcosa che sarà sempre ancora troppo lontano.

Devo però fare una confessione: ci ho sperato, ma non me lo aspettavo.

Come detto prima, ci ho creduto a malapena partendo da quando sono stati pubblicati i quadri dei punteggi finali redatti dalla commissione d’esame della mia classe.

Se ti fossi diplomato con un voto inferiore?

Cerco di non farmi mai troppe aspettative, soprattutto in ambiti come questo: la delusione potrebbe lasciare un segno che, seppur piccolo, tenderebbe, nell’intimo, a persistere negli anni e questo non è giusto.

Si tratta di un esame che esprime un percorso lunghissimo, con le sue complessità e le sue emozioni, in un massimo di 3 cifre numeriche intere. Razionalmente, voti finali come “75”, “80” e “90” sono punteggi di tutto rispetto e senza alcun dubbio.

Dico solo che questo mio modo di affrontare le sfide, dando tutto me stesso fino all’ultimo, mi avrebbe forse portato a una delusione personale quantomeno iniziale e dall’ingente peso: in quei momenti si torna bambini, si vuole la ricompensa.

Poi col tempo ovviamente passa, ma potrebbe rimanere quella sorta di vocina che ripete “non sei stato reputato all’altezza”, spesso assordante e implacabile anche con diversi altri risultati, magari dal riscontro pratico.

Secondo un luogo comune diffuso sui Social, non è detto che il diplomato col massimo dei voti si realizzi nella vita più di uno studente medio. Cosa ne pensi?

Si tratta di una considerazione completamente corretta.

L’ho detto e lo ripeto, perché è importante che non passi il messaggio sbagliato: si è umani, ingiudicabili da nessuno e tantomeno da uno dei tanti numeri che proveranno arrogantemente a giudicare chi siamo, cosa abbiamo fatto, quanto abbiamo fatto e come l’abbiamo fatto.

Risulta palese agli occhi di tutti che una considerazione del genere non può che essere comune soprattutto a chi soffre di quell’insoddisfazione di cui parlavo prima.

Se un numero, una qualifica o una nomina potesse significare la totale rimozione della capacità di sbagliare, allora basterebbe quel famigerato “100 e lode” alle superiori, ma già un “10 e lode” alle medie, per raggiungere la conoscenza universale dell’ambito in cui si studia.

Magari.

Questa è fantascienza, trasformata in realtà, da frustrazioni e insoddisfazioni, nella percezione a cui molte persone sono costrette da un sistema scolastico spesso logorato da un’amministrazione inadeguata. Sbagliano i professori, sbagliano gli ingegneri, sbagliano gli scienziati, sbagliano i capi di Stato, sbagliano i genitori: è l’inestimabile meraviglia dell’umanità, perfetta così, con tutte queste piccole imperfezioni.

Quel numero dà solo una massima indicazione, tra l’altro alterabile da troppi fattori per essere considerati nella loro totalità: il resto, fortunatamente, è rimandato alle capacità, alla disciplina e alla determinazione al singolo individuo.

(Camilla Nonni)

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