2 novembre 1975

Il ricordo di un poeta e di una versione del mondo

Il giorno dei morti ricorre anche l’addio a Pierpaolo Pasolini. Era il 1975 e le precise circostanze della morte violenta non sono state mai chiarite. Il modo in cui si è congedato dalla vita appare come una fine cercata, voluta, affinché somigliasse alle narrazioni di vita violenta alla periferia del mondo con le quali ha introdotto un nuovo soggetto narrativo: lo sconfitto, colui che nella nostra società non avrà mai la possibilità di farcela, chi ha la faccia sporca e non conoscerà mai una redenzione nella società cosiddetta borghese. Probabilmente fu un rappresentante o diversi protagonisti di quel mondo a dare il colpo finale ad un poeta che probabilmente nel corso della sua vita reale aveva detto tutto quanto aveva da dire.

Oggi ricordarlo potrebbe avere poco senso perché non esiste poeta, narratore, regista cinematografico che sia stato più celebrato nel nostro paese. E questo perché essendo per natura e scelta dalla parte del torto fu una voce che riusciva a fornire a ciascuna delle parti in campo (cattolici, riformisti, ribellisti, emarginati, intellettuali, contestatori eternamente controcorrente) una versione utile per attaccare l’avversario.

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Ma la grandezza di questo personaggio sta tutta nel contesto di quegli anni violenti che però non erano ancora passati alla lotta armata nelle fasi più eclatanti. La sua capacità di essere una voce diversa, mai prevedibile, sempre ben lontana da posizioni delle diverse parrocchie o delle visioni controverse che pure sovrabbondavano in quegli anni.

Il mondo che ha lasciato Pasolini è quello dove però era ancora possibile uscire dai canoni con la fermezza di chi poneva una visione, senza la pretesa di dare l’ultima verità, e ancora ben lontano dalle post-verità a cui ci ha abituato il nostro modello tecnocratico.

Forse proprio la sua morte, controversa nella fattualità, può segnare l’inizio delle post-verità, di quelle versioni che vengono presentate come date e che rischiano di caratterizzare eventi in modo rovesciabile da altre versioni o da diversa lettura dei fatti.

Pasolini ebbe l’infantile coraggio di accusare il governo delle grandi logiche imperanti con le sue verità. “Io so che” … Tuonava un suo scritto. Ma chiudeva in modo quasi ironico “Però non ho le prove”. Un convincimento consapevole poteva superare la conoscenza fattuale degli elementi determinanti di situazioni e cose descritte. Era un’affermazione forte sulle secce per le quali nulla di può dire se non dimostrabile. Noi invece ci facciamo immagini dei fatti e grazie a quelle immagini costruiamo il nostro codice di vita.

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Quella visione non era più nel solco storico. Non sappiamo se Pasolini se ne accorse e se quindi il suo congedo fu un atto deliberato e scelto per congedarsi da un mondo in cui la parola sia legata solo a un referente empirico. Un grido affinché alla fine sopravviva il sentimento sul mondo, invece della sopraffazione della sua spiegazione sulle cose.

Ricordarlo oggi non può significare imitarlo. Leggere le sue poesie e il lascito narrativo però ci aiuta a capire che c’è tanto da capire nelle evidenze dei fatti che non sempre riescono a dire tutto dei fatti.

 

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