TIVOLI - Davide Sinibaldi, va in pensione il poliziotto cacciatore di orchi

Da segugio di rapinatori a coordinatore del Pool Antiviolenza: "Ho cercato di umanizzare la Polizia di Stato"

Per un quarto di secolo è corso dietro alle “batterie” di rapinatori romani e alle gang di spacciatori tiburtini, gli ultimi 18 anni li ha dedicati a una delle piaghe peggiori della società: la violenza sulle donne e sui bambini.

Il Commissario Davide Sinibaldi: oggi è stato il suo ultimo giorno di servizio nella stanza numero 40

Davide Sinibaldi, 60 anni, Commissario della Polizia di Stato, è il responsabile del Pool Antiviolenza del Commissariato di Tivoli, referente e co-autore del “Codice Rosa Integrato”, un modello operativo a contrasto della violenza di genere che prevede l’interazione tra forze dell’ordine, ospedali e centri anti-violenza, oltre che referente del progetto “Scuole Sicure”, il ciclo di incontri coi ragazzi degli istituti dell’hinterland tiburtino.

Da domani, giovedì primo agosto, il Commissario è in pensione dopo 42 anni di servizio da “poliziotto da marciapiede”, come ama definirsi.

Davide Sinibaldi è entrato in Polizia il 15 gennaio 1983.

“In quei tempi si viveva in un’altra Italia – racconta – Noi eravamo pieni speranza e di tanta voglia di fare. In quella scuola ebbi la straordinaria opportunità di conoscere tanti fratelli provenienti da tutto il Paese e con i quali strinsi un vincolo che poi il tempo non scioglierà mai più.

L’Italia stava lentamente uscendo da una lunga stagione di sangue. 

Forti ancora erano le contrapposizioni ideologiche, lo Stato c’era e non si era spezzato ai tempestosi venti sovversivi. Noi eravamo troppo acerbi per poter realmente comprendere il rischio a cui ci stavamo esponendo, ma come tutti i giovani, un po’ incoscienti e privi di esperienza, volevamo fare la nostra parte”.

Il Commissario Sinibaldi negli anni 90 in moto coi colleghi della Squadra Falchi della Squadra Mobile di Roma

Primi anni alla Digos di Roma, poi il concorso da sottufficiale e il trasferimento alla Squadra Mobile Quinta Sezione Antirapine fino al 2006 quando ha chiesto di essere trasferito al Commissariato di Tivoli.

 Tre anni passati ad arrestare banditi e spacciatori fino a rendersi conto dei molteplici casi di violenza domestica e atti persecutori. Argomenti discussi nella tesi di Laurea in Scienze delle Investigazioni e Scienze Tecniche Psicologiche presso l’Università degli studi de L’Aquila, che insieme ad un Master di secondo livello ne hanno fatto un esperto del settore, promotore del cosiddetto “Modello Tivoli”.

Il Commissariato di Polizia in largo Salvo D’Acquisto a Tivoli

Commissario Sinibaldi, con quale stato d’animo va in pensione?

“Vado in pensione vivendo uno tsunami emotivo.

Ero convinto che nel corso della mia lunga carriera di averle vissute tutte, ma questa per me è stata quella più forte. Uscire dalla stanza 40 del Commissariato Distaccato di Tivoli chiudendo la porta alle mie spalle mi ha provocato un dolore indicibile se pur consapevole che nella vita ogni cosa ha un suo inizio e una sua fine”.

Rimpianti?

“No, non ho alcun rimpianto.

Ho vissuto la mia vita professionale come se ogni giorno fosse l’ultimo.

Non mi sono risparmiato. Ho sempre preteso il massimo da me stesso e dai miei collaboratori. Nulla deve essere lasciato al caso, questo presuppone impegno, dedizione, sacrificio e soprattutto tante rinunce.

La vita dell’investigatore non è semplice, soprattutto per le persone che ti vivono accanto. Faccio riferimento alla famiglia, ai miei figli. Si ha bisogno anche del loro contributo a discapito dei tanti momenti irripetibili che avrei dovuto vivere insieme a loro ed invece, a causa del mio lavoro, non ci sono stato”.

Il Pool Antiviolenza del Commissariato di Tivoli è stato costituito nel 2009 dal Commissario Davide Sinibaldi

Come e quando è nato il Pool Antiviolenza?

“Nel 2009. 

Registravamo tantissimi interventi delle volanti in situazioni di criticità familiare c’era la necessità di creare una specializzazione per affrontare reati che fino al 2009 con l’introduzione dello Stalking venivano affrontati in maniera disgiunta ma non era percepito il disvalore che procuravano alle vittime.

L’allora dirigente del Commissariato Giancarlo Santelia mi chiese di organizzare un gruppo di lavoro e un nuovo modello di intervento rispetto al passato.

Fino ad allora la volante interveniva presso un luogo in cui veniva segnalata una lite domestica, ma all’arrivo la lite era sedata per cui ci si limitava a invitare le parti a formalizzare denuncia e a scrivere una magra relazione di servizio che moriva nel dimenticatoio dei nostri archivi polverosi.

Invece pensammo di creare una sorta di database e di monitorare le famiglie particolarmente a rischio, laddove venivano segnalati interventi reiterati, contattavamo e contattiamo le vittime, mettendoci a disposizione per un eventuale ascolto.

Da lì è nata la collaborazione con l’allora Centro Antiviolenza “Le Lune” di Guidonia diretto da Lina Losacco insieme alla quale organizzammo un nuovo modello di intervento nei luoghi in cui la violenza emergeva, dal pronto soccorso al consultorio, fino al  medico di famiglia.

Quindi interessammo il dirigente del pronto soccorso di Tivoli Ugo Donati e scrivemmo il Codice Rosa Integrato”.

Il Procuratore Capo di Tivoli Francesco Menditto insieme ad alcuni magistrati del Pool Antiviolenza

In cosa consisteva il Codice Rosa Integrato?

“Prevede personale sanitario formato e l’intervento immediato di poliziotti specializzati insieme alle esperte del Centro Antiviolenza come ausiliarie di Polizia giudiziaria.

Nella nostra rete coinvolgemmo anche altri attori istituzionali, non ultime le scuole perché crediamo nel cambiamento culturale se vogliamo vincere la violenza domestica.

Col Pool Antiviolenza siamo entrati negli istituti portando ognuno e proprie capacità ed esperienze professionali e dal 2012 col progetto Scuole Sicure abbiamo iniziato a parlare coi ragazzi e prima ancora a formare i docenti facendo rete.

L’assurdo di questa faccenda era che la Polizia parlava un linguaggio giuridico, i medici un linguaggio sanitario, i docenti un linguaggio scolastico: nonostante tutti facessimo parte della medesima pubblica amministrazione in realtà non riuscivamo a parlare tra noi perché ognuno era arroccato e perfino diffidente nei confronti dell’altra professione

La chiave di volta è stata creare una rete e stabilire quale lingua parlare”.

Dal 2012 il Commissariato di Tivoli svolge il progetto “Scuole Sicure”

Quali risultati ha portato?

Enormi perché gli insegnanti si sono sentiti compresi: non ci dimentichiamo che la scuola è forse il primo baluardo contro la violenza, la criminalità e contro tutte quelle cose che quotidianamente combatto.

Così per la prima volta i docenti hanno iniziato a inviare segnalazioni sulla base dei malesseri dimostrati dai loro studenti e questo ci ha permesso di entrare nelle scuole per parlare di bullismo, droga, violenza di genere, ma soprattutto di sdoganare la divisa.

In che senso?

Io vengo da una generazione in cui la Polizia entrava nelle scuole per manganellarci piuttosto che per parlarci.

Il nostro slogan è stato “Un amico in più”, i ragazzi sapevano di potersi rivolgere a un fratello maggiore a cui chiedere consiglio anche per i piccoli grandi bisogni di un adolescente”.

Nei primi anni della sua carriera il Commissario Sinibaldi ha dato la caccia ai banditi

Commissario Sinibaldi, dai rapinatori ai pusher fino a diventare un precursore nel contrasto alla violenza di genere. Perché?

“La prima domanda che un investigatore si pone su una scena del crimine è perché, come e soprattutto chi commette il delitto: l’autore è anonimo, difficile da individuare.

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Mi ha stimolato il fatto che nel caso della violenza le vittime vengono a raccontarci quanto subito, ci dicono chi è il carnefice, quindi sembrerebbe che inizialmente si parta avvantaggiati.

Pensavo che fosse più semplice, invece le dinamiche che determinano le violenze hanno effetti psicopatologici e questo mi ha invogliato a crescere professionalmente confrontandomi con altre figure trattandosi di materia che spazia dall’ambito criminalistico o quello scientifico: è impensabile che un buon investigatore possa far conto solo sulle proprie capacità professionali per inchiodare i colpevoli di un reato”.

In 15 anni di attività il Pool Antiviolenza del Commissariato di Tivoli ha smascherato tanti pedofili

Che faccia ha un pedofilo?

“Dietro a tutte le parafilie esistono patologie, non lo dico io ma il Manuale diagnostico delle malattie mentali che ben definisce i tratti patologici da chi è mosso da questo impulso irrefrenabile di importunare i bambini: esiste una vera e propria sindrome riconosciuta e in seno alle caratteristiche con cui agisce il pedofilo ci permette di identificare il suo modus operandi, di individuare e comprendere se sia un sadico piuttosto che un perverso”.

La violenza domestica è un’emergenza

Che faccia ha invece un uomo violento?

“E’ completamente diverso, alla base della sua violenza c’è la sua cultura: tutti gli uomini violenti, senza eccezione alcuna, sono stati avvezzi alla violenza e nelle fasi evolutive vi sono stati esposti fino a normalizzarla”.

C’è differenza tra l’uomo violento e il criminale comune, per intenderci i componenti delle batterie di rapinatori che inseguiva quando era alla Squadra Mobile?

“Grande differenza. 

Il rapinatore quasi mai parla di fronte all’inquirente e si avvale della facoltà di non rispondere.

Al contrario l’uomo violento parla tantissimo perché è convinto di essere nel giusto, lui non percepisce il suo agito violento delittuoso come un disvalore, un po’ come lo psicopatico che commette un reato senza provare empatia nei confronti della vittima.

L’uomo violento è convinto che il suo agito sia giustificato e rimanda sempre all’altro la responsabilità della loro violenza, anzi la maggior parte delle volte si sentono vittime del reato che loro stessi agiscono”.

L’ex Presidente dell’Azione Cattolica di Tivoli Mirko Campoli: il suo è stato l’arresto più eclatante firmato dal Commissario Sinibaldi

Vale lo stesso per i pedofili?

“No, il pedofilo è convinto di non fare del male alla vittima perché gli vuole bene, in realtà lui non pensa di arrecare un danno così grande, per lui è una manifestazione di affetto, di comprensione, di accoglienza nei confronti della vittima stessa”.

Pedofili e uomini violenti sono riconoscibili, ossia fanno una vita normale nella società?

“Sono in mezzo a noi e sono tra noi. Basti pensare quando accade un femminicidio la prima cosa che fa un giornalista è mettere il microfono sotto il naso del vicino di casa che dice: era una brava persona, una persona comune, lavoratori, una famiglia perfetta.

E’ esattamente questa la figura, non emerge mai come quelle caratteristiche somatiche di chi vive di espedienti che un bravo investigatore percepisce subito:  l’uomo violento è assolutamente normale, la violenza è trasversale, riguarda ogni ceto sociale.

Le statistiche parlano chiaro: non esistono isole franche, la violenza la troviamo dai quartieri bene a quelli più degradati”.

I vicini intervistati dopo un delitto spesso commentano: “era una brava persona”. 

Ma un uomo diventa omicida da un giorno all’altro? 

“Spesso erroneamente ascoltiamo alla tv: “Uccide la moglie in preda a un raptus di follia”. Questo non esiste proprio, e non soltanto in psichiatria, perché la violenza si perpetra nell’arco degli anni.

Questi comportamenti violenti non sono solo di carattere fisico, ma anche psicologico, verbale, economica: sono tutte quelle condizioni come l’isolamento finalizzate a privare dell’identità le donne e a metterle nella condizione di essere assoggettate a quell’uomo che nel tempo riesce a fare credere alla vittima di vivere grazie a lui”.

Aumentano i casi oppure si denuncia di più?

“Aumentano i casi e si denuncia di più. Si denuncia di più perché oggi le donne grazie a questo enorme fenomeno di sensibilizzazione permette di catalizzare la violenza in più luoghi: le scuole, i consultori, i centri antiviolenza, i medici di famiglia.

E soprattutto oggi abbiamo formidabili strumenti che prima non avevamo, basta pensare che la Questura di Roma in tutti i commissariati territoriali ha creato dei gruppi di lavoro come il Modello Tivoli con investigatori specializzati che a tempo pieno si occupano soltanto di questo, presenti anche all’esterno che vanno nelle scuole. 

Dal 2012 col progetto Scuole Sicure abbiamo incontrato migliaia di ragazzi e la collaborazione dei docenti ha permesso di far emergere casi che prima venivano messi sotto al tappeto”.

Dà più soddisfazione professionale arrestare rapinatori e pusher o pedofili e uomini violenti?

“C’è una caratteristica che accomuna chi fa il mio lavoro: alla fine dell’indagine ci si sente sporchi, è come se ti rimanesse attaccato qualcosa che t’ha contaminato, perché calarsi nel pozzo profondo in qualche modo ti lascia un segno indelebile: non c’è mai soddisfazione, piuttosto provo un senso di pietas nei confronti di chi commette il delitto e verso chi lo subisce.

Al contrario, noi cerchiamo in qualche modo di aiutare una parte e l’altra, non pensiamo che chi ha sbagliato necessariamente abbia sempre torto”.

Si spieghi meglio.

“Se un uomo sbaglia è perché probabilmente il suo percorso di vita lo ha messo nelle condizioni di sbagliare.

Allora gettiamo sempre un’ancora nei confronti di chi vuole essere aiutato perché ci rendiamo conto che non è consapevole fino in fondo della violenza che agisce. Del disvalore dei suoi comportamenti illeciti.

Non potrei mai parlare di soddisfazione, piuttosto è una sorta di spinta che diamo a noi stessi quando otteniamo un buon risultato, anzi ci permette di affrontare il prossimo caso con più slancio”.

Giuseppe Rocchi di Villanova di Guidonia, noto come “Joe Megafeste”, organizzatore di eventi per bambini

Il caso che l’ha fatto sentire più “sporco”?

“In assoluto quello di Giuseppe Rocchi, il pedofilo di Villanova di Guidonia, è stato il caso che ha segnato me e i miei collaboratori in maniera indelebile per la nostra esistenza”.

Perché?

“Abbiamo dovuto affrontare per la prima volta una situazione che si era così cronicizzata e normalizzata sul territorio in cui vivo:

Faceva male soltanto l’idea che quest’uomo potesse aver agito così male nei confronti di tanti bambini. 

Ma abbiamo avuto la possibilità di toccare con mano e quasi essere presente nei momenti in cui abusava di loro.

Sequestrammo centinaia di video e dovemmo visionarli uno per uno per dare un volto a quei bambini che nel frattempo erano diventati adulti: durante la visione ho visto i miei collaboratori, tra l’altro uomini corpulenti, alzarsi per andare umilmente in bagno e piangere, perché il dolore che si prova ti fa sentire sporco, ci si vergogna di essere uomini, ci si vergogna di non aver avuto la possibilità di intervenire prima e interrompere questa escalation di violenza assoluta.

Ecco perché il caso Rocchi è uno dei fatti che mi porterò dietro per tutta la vita e così i miei colleghi che vissero questa lunga esperienza investigativa che ci ha lasciato un dolore profondo, al di là della condanna esemplare confermata anche in Appello”.

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Ha più incontrato le vittime di Rocchi per la strada?

“Certo, ma cerco di allontanarmi per non fargli rievocare quel vissuto così traumatico perché in qualche modo la mia figura li potrebbe far rivivere quei fatti così devastanti.

Durante le indagini ebbi un grande aiuto dal consultorio di Guidonia che garantì supporto per i bambini e per i genitori in un percorso travagliatissimo che ha segnato tutti quanti noi”.

Lo Stato come aiuta le vittime dopo?

“Un nucleo familiare che subisce questo genere di crimini non può essere mai lasciato solo, per cui lasciamo i nostri recapiti telefonici, il mio cellulare squilla giorno e notte perché quelle persone nel momento del bisogno devono avere un soggetto al quale rivolgersi.

E anche la Asl non si sottrae da queste responsabilità.

Tuttavia, al territorio mancano ancora oggi delle case rifugio, oggi le donne le collochiamo in case famiglia che per loro natura non sono specializzate per questo genere di percorsi ma accolgono le vittime nella consapevolezza del pericolo al quale sono esposte”.

Nel 2024 ancora non tutte le donne hanno la forza di denunciare le violenze in famiglia

Perché nel 2024 una donna non denuncia e si tiene le botte?

“La condizione principe che determina la violenza è la cultura: quella donna da bambina è stata esposta alla violenza dove c’era una madre che subiva l’agito del padre, quindi la giustificazione della madre è stata presa a modello e lei a sua volta ha continuato a giustificare l’uomo violento”.

Che faccia ha una donna vittima di violenza?

“La riconosciamo nel momento in cui varca la soglia del commissariato: è stata espropriata della propria identità, è priva di anima, ha gli occhi spenti e lo sguardo rassegnato. 

E tende a rimuovere il suo traumatico vissuto nell’arco del tempo, spesso non è così oculata e precisa nei racconti e fa uno sforzo abissale perché prova un dolore enorme.

Gli esperti dicono che per superare un dolore bisogna riviverlo e quindi elaborarlo.

Quello che facciamo noi è questo: trovare il sistema per far non solo rievocare ma anche rivivere tutta la violenza nascosta e rimossa per poi riportarla al pubblico ministero che è altrove.

A Tivoli siamo stati molto fortunati, abbiamo un Procuratore capo che ha istituzionalizzato un enorme gruppo di lavoro fra terzo settore, Asl, forze dell’ordine, scuole e servizi sociali, con un Pool di pubblici ministeri specializzati”.

In questi 15 anni sono capitate donne che hanno denunciato ma in realtà era un bluff?

“Sì, una piccola percentuale”.

Perché lo fanno?

“Ad esempio perché vogliono accaparrarsi un ingiusto profitto in sede di separazione magari utilizzano i figli quale strumento di ingiuste rivendicazione nella fase di separazione”.

Un caso emblematico?

“Quello di una donna affetta dalla sindrome di Munchausen che ha addirittura agito atti lesivi sul figlio denunciando l’ex marito come autore quando il bambino era con lui nel fine settimana”.

Come l’avete scoperto?

“Aveva architettato tutto a regola d’arte, comprese le lesioni sul bambino, e tutto faceva pensare che l’uomo fosse un pedofilo.

Chiudemmo le indagini, portammo al pubblico ministero prove inconfutabili, ma c’era qualcosa che non mi tornava”.

Cosa?

“Il suo racconto era troppo preciso e circostanziato. E il bambino era plagiato, recitava una sorta di filastrocca che lei filmava col telefonino e produceva a noi quei video.

In realtà i bambini che subiscono una violenza non sono così bravi a esplicitarla anzi al contrario: la violenza la normalizzano, non la vivono come un atto violento”.

Come ne siete venuti a capo?

“L’indagine era chiusa ed era prossimo l’arresto dell’uomo. Ebbi un colloquio col pubblico ministero Gabriele Iuzzolino esprimendo le mie perplessità, quindi chiesi e ottenni un’intercettazione ambientale nella casa dell’indagato: scoprii un padre amorevole, sicuramente più bravo di quanto non sia stato io coi miei figli, un genitore presente, dolce e attento.

Eppure, quando dopo il fine settimana lo riportava dalla madre la donna ci raccontava che aveva subito violenza. Era impossibile, perché non lo avevamo mai perso di vista per mesi quando era col papà.

Questo ci permise di scagionare l’uomo e allo stesso tempo di indagare la madre che oggi è a giudizio per il reato di calunnia aggravata”.

Lui che disse?

“Venne nel mio ufficio ringraziandomi in lacrime e disse: tutto quello che ho pensato di lei me lo rimangio e le chiedo perdono. Risposi che rientra nelle dinamiche del gioco e l’importante è cercare e trovare la verità. Questa è stata una soddisfazione professionale”.

Invece Rocchi come reagì?

“Il giorno in cui andai ad arrestarlo gli dissi se aveva bisogno di aiuto poteva contare su di noi. Lui rispose che ai bambini voleva bene, che li amava”.

Pedofili e uomini violenti: come se ne esce? 

“Quello che oggi stiamo affrontando è una battaglia senza quartiere alla quale non possiamo sottrarci, è la vera sfida del futuro perché questo genere di violenza dipende dalla cultura: se continuiamo ad esporre i bambini alla violenza da adulti avremo altra violenza e sarà un ciclo senza fine.

Dobbiamo spezzarla e possiamo soltanto con un cambiamento culturale”.

Il Commissario Davide Sinibaldi in una foto di repertorio

Quale ricordo e contributo pensa di lasciare ai colleghi del Pool antiviolenza?

“Lascio un formidabile gruppo di lavoro. Composto da seri professionisti che hanno sviluppato nel corso degli anni un know-how non comune.

Una squadra con competenze professionali ed umane che permettono di accogliere chiunque abbia bisogno del loro aiuto”.

Quale contributo pensa di aver dato alla collettività?

“Quello di aver cercato di umanizzare la Polizia di Stato.

Composta non da inarrivabili superuomini con cui è quasi impossibile rapportarsi. Piuttosto ho cercato di far comprendere a tutti che la Polizia è composta da persone comuni che vivono e presidiano il territorio a tutela della legalità. Si può entrare all’interno di un Commissariato e chiedere semplicemente di poter parlare con “Davide Sinibaldi”.

Un problema condiviso diventa un mezzo problema. Un fardello meno pesante da portare. Insieme, si può superare ogni difficoltà.

Penso alla “Casa dell’Aurora”. Una moderna struttura realizzata all’interno del Posto di Polizia di Guidonia e pensata per accogliere donne e minori.

Un luogo dove le vittime vulnerabili possano sentirsi a loro agio durante le audizioni. Inaugurata lo scorso anno, ha permesso di accogliere le vittime in un contesto meno traumatico di quello di un Ufficio di Polizia”.   

A chi deve dire grazie?

“In primis ai tanti cittadini tiburtini che in questi anni mi hanno espresso in tutti i modi la loro solidarietà. Ai mie superiori che hanno creduto in me offrendomi l’opportunità di concretizzare i mei progetti.

E non ultimo, la Procura della Repubblica di Tivoli, il cui procuratore Dottor Francesco Menditto e i suoi Sostituti/e sono stati per me ed i miei collaboratori in questi anni degli importantissimi interlocutori senza i quali tutto questo non si sarebbe mai potuto realizzare”.

Cosa farà da domani?

“Domani è un altro giorno”.

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