Pazzia o vittima del sistema?

Due versioni di un accadimento che in entrambe i casi sollevano da responsabilità dei soggetti

Filippo Turetta è uno squilibrato o una vittima del sistema? Follia degenerativa o emblema delle contraddizioni della società ancora paternalista? I casi cambiano ma i due poli del dibattito vertono sempre su questi due poli. Da una parte la singolarità del caso e il suo confinamento. Dall’altra la generalità e il richiamo a ben altra problematica da combattere in contesti più allargati. Diversi gli attori di questa tragedia. Ma il soggetto di sceneggiatura sul quale si forma il dibattito si mostra come identico ogni qualvolta sia sollecitato.

Siamo ancora lontani dall’aver riconosciuto esatte dinamiche della vicenda, ignoti sono i fondamentali dettagli in cui è avvenuta l’orrenda morte di Giulia Cecchettin e già il dibattito ci si interroga con piglio eziologico. Scoprire cioè le derivazioni sociali o psichiche di un avvenimento senza conoscere ancora le esatte dinamiche. Su questo il paradosso ci si sta attanagliando, anche nell’impostazione di coloro che sono professionalmente chiamati a giudicare. (Sui giornali sono apparse impostazioni diverse di due Procuratori. Secondo l’uno si teme la mossa avvocatesca di dichiarare l’infermità mentale secondo l’altro si guarda alla ieratica e distaccata funzione della legge quando emette la sentenza).

IL “ non giudicate e non sarete giudicati “ appare il precetto più difficile da praticare, ma anche da vivere. Chiaro è che nel giudizio ci sia una difesa preventiva. E’ come entrare in una dimensione di autotutela perché tanto male non coinvolga anche il soggetto giudicante. Anche sotto il profilo semplice del gravame morale!

Ma al di là di considerazioni etiche, in un paese di giudici chi è preposto al giudizio – sempre in base alle leggi e alle normative – dovrebbe astenersi dal darne in modo anticipato. Ma anche di accennare alla modalità con la quale di intende entrare nella questione.

L’astenersi dall’entrare nel merito continua ad essere l’esercizio più difficile dell’occhio osservante.

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