2 dicembre 1977

Un pezzo di memoria, un frammento di Storia, dal quale è iniziata la lacerazione profonda nel riformismo italiano: da una parte chi lavora, dall'altra chi fa politica

“C’era un vento gelido che tagliava la faccia”. Così il ricordo di Pio Galli nel libro Da una parte sola (pag.176). Duecentomila, tra operai veri, veri disoccupati e studenti presero parte alla manifestazione per lo sciopero generale contro il governo Andreotti sulle riforme che non c’erano e per chiedere una svolta nella direzione dell’economia del paese. Il vero e unico obiettivo doveva essere la piena occupazione: un’utopia dannosa per gli economisti, un obiettivo irrinunciabile per chi lavorava e guardava alla socializzazione come una prospettiva. Quella grande manifestazione fu organizzata quasi a dispetto delle strategie del Partito Comunista Italiano, tutto preso ad arrivare a traguardo nel percorso verso il Compromesso Storico. Tutti quegli operai in piazza, l’unione con gli studenti, il fatto di andare in piazza superando le provocazioni delle manifestazioni studentesche che nei mesi precedenti avevano reso teso il clima e stigmatizzato chiunque guardasse a un modo nuovo di produrre e distribuire la risorse.

Quel giorno sarà ricordato dalla Storia come una grande giornata di divaricazione. Il mondo della sinistra in definitiva iniziò a dividersi come status, come modo d’essere, come luogo di appartenenza alla politica. La Federazione Lavoratori Metalmeccanici a parlare di diritti dei lavoratori come obiettivo unico assoluto e preminente. Il partito che doveva rappresentarli, il PCI, aveva messo in cantina certi propositi da tanti anni. Si era imborghesito. La paura di un colpo di Stato militare come era successo in Cile, l’appartenenza al blocco Nato, l’impossibilità teorica di un mondo diverso, aveva persuaso i dirigenti a sistemarsi meglio nel mondo che vivevano. Ma tutto questo senza alcuna svolta riformista vera e propria. Continuavano a chiamarsi riformisti ma adesso osservavano le grandi manifestazioni di piazza dalla finestra, in poltrona, mentre leggevano il giornale o rileggevano qualche classico marxista.

Quella manifestazione invece diceva cose concrete che i comunisti del Pci, a parole, dicevano di condividere, ma non praticavano. Quindi, combattere: “contro il taglio al potere d’acquisto del salario, le condizioni dei “non garantiti”, giovani disoccupati, studenti, donne”.

Gli operai (quelli veri, non presi per un compiacente servizio da cinegiornale tipo Settimana Incom) intervennero direttamente nel dibattito sul governo della crisi. La grande intuizione che ci fu in quel giorno guardava al timore di una restaurazione sociale ed economica dentro una fase apparentemente di riforme. Democrazia e cambiamento potevano arrivare dalla classe operaia. Spinte che non ci sarebbero state se non avesse anche concorso un movimento di protesta teso all’utopia, come nei mesi precedenti.

Fu un sogno spezzato. Se ne ripropone oggi la memoria per riferire ad un momento specifico in cui iniziò la grande divaricazione tra la forza politica che rappresentava il movimento operaio e dei lavoratori e questi ultimi. Nel tempo, gradatamente, sarebbero stati assai meno rappresentati da quella grande forza che fu il Pci e poi il Pds e dopo ancora i Ds.

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