“ Non ha commesso il fatto “

La sentenza della Corte d’Assise d’Appello aggiorna il contrasto reale tra una parte della classe politica e l’operato della magistratura sotto attacco coi referendum dei radicali e in predicato di revisione dei poteri con la Riforma Cartabia

Fine di uno psicodramma durato per anni?

Viene da chiedersi cosa abbiamo letto in paginate e paginate di importanti editorialisti, quali ragioni abbiano motivato a dare dodici anni al primo grado di giudizio. Se contatti ci sono stati non si è trattato di trattative. E questo è quanto. Il senso della sentenza è questo e a poco serve rimandare alla lettura delle motivazioni che saranno pubblicate tra due mesi.

Ora si vedrà come questo evento storico inciderà in fase di una grande riforma sul sistema di funzionamento della giustizia ordinaria e in espletazione della raccolta di firme per il referendum che vuole ridimensionare i termini della custodia preventiva.

La tendenza di vedere in questa decisione un segno di controtendenza alla spinta processuale che fino a pochi giorni fa è arrivata a chiedere la perizia psichiatrica per Silvio Berlusconi è forte. Ma i due fatti sono troppo vicini per fantasticare un segno di controtendenza della magistratura nei confronti del potere politico. Né per interpretarlo – come è stato fatto – come un cenno di armistizio di una guerra iniziata con i processi di Tangentopoli. Si correrebbe nel solito errore di considerare il blocco della magistratura come un monolite strutturato per ridimensionare il potere politico. I fatti di cui trattasi le cronache dei nostri giorni – il processo Palamara e le memorie di Amara – stanno invece a dare un’immagine di una classe di potere gestita da correnti e meccanismi di potere interni imperscrutabili ai più.

E prima di fare il tifo per un organo dello Stato a dispetto dell’altro si deve ammettere che come si formulano capi di imputazione con sentenze, in modo altrettanto smaccato le stesse vengono smentite. (Lo stesso Berlusconi oggetto di diversi capi di imputazione è stato il più delle volte prosciolto o prescritto).

L’esito finale di questo processo, che si definirà qualora ci sia il ricorso in Cassazione, fa affiorare un problema dei nostri tempi che consiste nei limiti di azione del potere politico. Questo girare intorno alla linea di confine dei poteri attribuiti dalla Costituzione alla magistratura nasconde un problema centrale che consiste nel fatto che i mezzi, giustificanti il fine, debbono conoscere dei limiti impossibili da decidere a priori.

Il tema della trattativa chiama al problema della trasparenza del governo della cosa pubblica. Nella società tecnocratica in cui ogni azione di chi manovra può esser trasparente parlare col nemico si traduce come un tradimento, anche se, anche durante le guerre, i nemici hanno sempre continuato a parlarsi. Ma in questo dialogo bisogna stabilire quali siano i termini di scambio. Si parla col nemico per stabilire un armistizio oppure per mercanteggiare concessioni dalle diverse parti? Ed entrambe le situazioni non finiscono per lambirsi l’un l’altra. Qual è la linea di confine?

Ieri il Tribunale di Appello ha deciso per la liceità dei termini di confronto Ed una conferma esce da questa sentenza: neanche il più democratico dei governi riuscirà ad essere totalmente trasparente.

 

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