Pandemia non fa rima con filosofia

Mai toccato punto più basso nella storia della dimensione riflettente

Le crisi sono sempre state il mare in cui la filosofia si è mossa meglio, essendosene fatta anticipatrice o addirittura promotrice. Quella pandemica dei nostri anni fa segnare invece un punto talmente basso da farci dedurre che – se effettivamente esistita – questo spazio della riflessione, che va oltre l’attuale ma lo attraversa, lo invera o lo capovolge, sia definitivamente tramontato.

“La filosofia nasce grande” – quasi ci ammoniva Emanuele Severino nelle lezioni su Talete e Anassimandro. Era un monito per porre la questione della sua storicizzazione senza addivenire a semplificazioni devianti, ma attraverso momenti di approfondimento in grado di farci comprendere effettivamente il livello e il grado di analisi e dimensioni. Un piano in grado di superare il livello della vita e della morte in cui è attanagliata la condizione umana.

Tutto questo è sbalzato via nelle esternazioni dei nostri filosofi. Pare che non ci sia altro da fare che celebrare il de profundis dando senso a questo tipo di letteratura solo col suo inserimento nella storicizzazione.

Il dibattito sull’attualità della crisi pandemica ci ha infatti ridato dei filosofi assai vicini alle paure del più ordinario senso comune. Si è cominciato dalla negazione del problema per leggerlo solo in versione di smantellamento delle libertà (Agamben ed Henry Levy). Ci si è riferiti in modo astratto alla Costituzione per riferire che determinate misure entravano in contraddizione (Cacciari) col suo dettato, ammettendo poi insofferenza umana nei confronti dello stato di clausura con l’ammonizione che molti malesseri sarebbero emersi (molto prevedibile, banale, a portata di esperienza comune). Si è fantasticato sul fatto che la migliore reazione alla pandemia sia stata quella italiana perché ha maggiore spessore umanitario (Donatella Di Cesare) senza contare il fatto che il rimedio alla malattia del vaccino arriva dal mondo della tecnica. E il prodotto di laboratorio ha poco di umanistico, a meno che non si consideri un’esaltazione cartesiana il sentirsi “dominator e possessor mundi” quel sistema che vuole controllare e risolvere necessariamente qualsiasi tipo di problema. Ma anche le reazioni a queste tentate eversioni dal reale ci hanno riportato brutalmente al più trito senso comune: necessario vaccinarsi, seguire le profilassi … (Galimberti).

Se i professori accreditati di filosofia fanno cilecca pare che non riescano a fare di meglio i propugnatori di soluzioni solo parzialmente valide come il vaccino: una riposta unica e indispensabile ma che non consente un’immunizzazione completa, reale, rassicurante.

Ed è allora su questo spunto che può nascere un riscatto nei confronti del momento della tecnica riportando la nostra condizione di ritrovarsi come un semplice elemento nelle dimensioni dello stato di natura, cosa che secoli di evoluzione sociale ci aveva dato l’illusione di aver superato. Contro il virus ha vacillato l’organizzazione dello Stato, ha vacillato il sistema computazionale analitico della genetica, impropriamente chiamato Scienza, ma anche, diciamolo, i sistemi di cura della Medicina.

Davanti a questa nuova crisi c’è quindi una grande occasione. Possiamo riscoprire come certi ambiti che apparivano ordinari fossero invece costitutivi e inalienabili dalla condizione umana. E sono la necessità della socializzazione, l’importanza della condivisione, la decisività della conoscenza. E si potrà dire Aristotele lo aveva detto (l’uomo è animale sociale). E solo in questa condizione ri-trovare l’ego in nuovi ambiti, capendo quanto il suo nulla sia dato se sussiste solo in relazione a sé.

Ma è uno spazio che scoperto nuovamente sarà possibile solo quando la crisi sarà risolta.

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