“Santità faccia finta di pregare”, intervista all’autore Giorgio Moscatelli

Una autobiografia ironica che ripercorre i quarant'anni di carriera vissuti in Rai come inviato speciale

Dal terremoto dell’Irpinia alle guerre civili in Africa, dalle miniere di carbone della Siberia ai reattori di Chernobyl. La vita avventurosa dell’inviato speciale della Rai Giorgio Moscatelli è stata raccontata in un libro “Santità faccia fina di pregare, cronache di un inviato” edito dalla Hoepli. Giornalista, ora scrittore, abita a Fonte Nuova ed è conosciuto sul territorio anche per i corsi di giornalismo, fotografia e regia che tiene nelle scuole e non solo.

Moscatelli, scorrendo il sommario del volume si ripercorre la storia dell’Italia e dei conflitti internazionali di questi quarant’anni. In che modo li ha voluti raccontare?

Quando sono andato in pensione, oltre a coltivare la mia passione per l’orto, ho pensato subito a buttare già qualche appunto per fissare questa vita ricca di avventure che ho vissuto grazie al mio lavoro. Solo che vedendo il cursore del computer lampeggiare, ho avuto subito un blocco dello scrittore. Mi chiedevo: ma a chi può interessare che sono stato in Etiopia, Eritrea, Vietnam, Israele, Sarajevo? Così ho pensato che avrei dovuto raccontarli con il mio stile, con ironia e autoironia, visto che questa è una mia filosofia di vita.

Si è mai trovato in situazioni pericolose, anche a rischio della vita?

Sì, sono cose che chi fa questo lavoro mette in conto. Devo dire, però, che non mi sono mai spinto troppo oltre. Comunque se sto qui a raccontarli, vuol dire che alla fine è andata sempre bene.

Oggi per fare una diretta e iniziare a raccontare un fatto, basta avere un telefonino con la connessione a Internet. Quanto è stato difficile raccontare, ad esempio, il terremoto dell’Irpinia del 1980 di cui parla nel libro?

Erano gli anni in cui c’era solo la Rai, Rai Uno e Rai Due, e stavano nascendo le prime televisioni private. Sapevamo bene di essere l’unico mezzo di informazione che poteva arrivare subito in tutte le case degli italiani.

La scossa di terremoto che ha devastato l’Irpinia è arrivata intorno all’ora di cena e anche noi a Roma l’abbiamo sentita bene. Siamo scesi in strada preoccupati, poi all’alba quando la preoccupazione è finita, siamo tornati nelle nostre case. Era chiaro, però, che fosse successo qualcosa di molto grande che andava raccontato, così ho lasciato mia moglie e sono andato in Rai. C’erano il direttore, il vice, e qualche altro volontario. Abbiamo deciso di partire, senza portare dietro un paio di mutande o uno spazzolino da denti. Le prime notizie parlavano di qualche morto e un epicentro verso Potenza, ma non c’erano certezze.

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In autostrada non c’era nessuno e quando siamo arrivati ad Avellino abbiamo deciso di uscire per vedere qual era la situazione. La sbarra era alzata, senza nessun casellante.

Percorrendo la strada verso il centro, la situazione sembrava tranquilla e la gente camminava normalmente per strada, poi dopo una curva abbiamo visto un centro storico che non c’era più. Era rimasto solo un cumulo di macerie con la gente che scavava alla ricerca dei propri cari.

A quel punto confesso che sono stato preso dallo sconforto. Andava fatta una scelta: posare la telecamera e mettersi a scavare aiutando i soccorsi, oppure continuare a fare il mio lavoro e raccontare quello che stava succedendo.

Cos’ha scelto?

Ho pensato che fosse importante far capire agli italiani cosa stesse accadendo. Se avessi aiutato a scavare, forse la mia coscienza sarebbe stata più tranquilla, ma la mia professione mi imponeva altro.

Altro episodio che viene raccontato anche nei libri di giornalismo come spartiacque con la cronaca moderna e per certi versi più morbosa, è la tragedia di Alfredino Rampi a Vermicino, con la storica diretta no-stop. Come mai non lo ha raccontato nel libro? Crede che il diritto di cronaca debba avere dei limiti in alcuni casi?

Ho deciso di non raccontare questo fatto, perché mi ha compito troppo emotivamente. Alfredino aveva la stessa età di mio figlio e poi ci sono alcune cose – che voglio tenere per me – che non sono andate proprio come è stato raccontato.

Quando siamo arrivati a Vermicino eravamo quattro gatti, poi grazie anche alla televisione, è arrivata una vera e propria folla. Quella trasmissione ha lasciato con il fiato sospeso tutta Italia, anzi direi tutto il mondo. Secondo me quella diretta fu un errore e anche la Rai lo ha capito e non lo ha più fatto. Ma fu un errore comprensibile, perché la gente voleva sapere.

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In questi quarant’anni ha conosciuto presidenti del consiglio, papi e leader internazionali. Può raccontarci un aneddoto su uno di questi che l’ha particolarmente colpita?

Mi capita spesso di fermarmi e pensare ai miei ricordi. Una persona che mi compare spesso è Golda Meir, la “Lady di ferro” di Israele. Siamo andati subito dopo la guerra dei 6 giorni per filmare la situazione e vedere cosa stava succedendo.

Siamo andati alla Knesset, il Parlamento, dove avevamo appuntamento con lei insieme ad altri colleghi della stampa internazionale. Devo dire che non l’avevo mai vista nemmeno in foto e non avevo idea di come fosse fatta. Quando è entrata questa donna alta, grossa e con i capelli attaccati, ho pensato subito che fosse uguale a mia zia Rosina di Reggio Emilia. Una donna d’altri tempi che era bravissima a cucinare.

Insomma durante tutta l’intervista ho continuato a pensare a mia zia, senza riuscirmi a togliere dalla testa questa immagine di lei che cucinava la pasta.

Le chiedo anche tra i tanti colleghi della Rai con cui ha lavorato, se c’è stato un maestro, qualcuno che ha rappresentato un punto di riferimento.

Io sono entrato in Rai che ero un ragazzino, avevo venti anni. Mi ricordo i primi tempi, quando uscivo anche con altri colleghi giovanissimi, che ci dicevano “Che andate a fare la tv dei ragazzi?”. Ero un po’ la mascotte di tutti e lo sono rimasto per anni.

Di consigli e di maestri ne ho avuti tanti, ma quello a cui sono più affezionato è Joe Marrazzo.

Con lui abbiamo fatto tante inchieste in Sicilia, a Napoli, sulla Mafia, sulle Brigate Rosse. Gli hanno incendiato due o tre volte la macchina e per un periodo gli fu affidata la scorta.

Devo dire che quando lavori con una persona del genere, che per me era un vero amico, sei sereno e non puoi che lavorare al meglio.

Moscatelli, perché questo titolo “Santità faccia finta di pregare”?

No questo non lo posso svelare, invito gli amici a scoprirlo leggendo il libro.

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